Rainer Maria Rilke non si legge per cercare risposte, ma per imparare a restare nelle domande: «Sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e cerca di amare le domande, che sono simili a stanze chiuse a chiave ... il punto è vivere ogni cosa. Vivere le domande ora. Forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga, di vivere fino al lontano giorno in cui avrai la risposta».
A centocinquant’anni dalla sua nascita, la sua voce continua a insegnarci che la poesia è un esercizio di pazienza e attenzione, un modo di abitare il mistero e di trasformare la transitorietà in splendore: «Lascia che tutto accada: la bellezza e il terrore. Basta andare avanti. Nessun sentimento è definitivo».
Non è un anniversario da celebrare in pompa magna, ma da sussurrarsi a bassa voce, consapevoli della preziosità. Del resto, Rilke non amava le celebrazioni, diffidava delle formule. Questa ricorrenza è un’occasione per tornare a lui, per lasciarsi attraversare da quella lingua che sembra provenire da un altrove, e che pure parla di noi con una precisione disarmante.
Rilke ha fatto della poesia un esercizio spirituale. Nei suoi versi non c’è mai compiacimento estetico, ma un continuo interrogarsi: come si può abitare il mondo senza tradirne il mistero? Come si può dire Dio senza ridurlo a un idolo? Le Elegie Duinesi sono il suo testamento, un dialogo con gli angeli che non rispondono, un canto che si alza proprio dal silenzio. In quelle pagine, la fragilità umana diventa forza, la precarietà si trasforma in apertura. Rilke ci insegna che la poesia non consola, ma accompagna: non risolve, ma illumina. «Il bello è solo l’inizio del tremendo», scrive, e in quella formula si condensa la sua idea di arte come soglia, come vertigine.
Rilke e l'irruzione delle "Elegie"
RSI Cultura 20.03.2018, 08:23
Leggerlo oggi significa riconoscere che la sua inquietudine è la nostra. In un tempo che ci spinge a semplificare, a ridurre, a consumare, Rilke ci invita a sostare. «Essere qui è splendore», afferma, e in quella frase c’è tutta la sua filosofia: la vita non va spiegata, va accolta. Non è un caso che abbia amato le rose, fiore effimero e perfetto, simbolo di una bellezza che non si trattiene. La sua morte stessa, avvenuta per una ferita causata da una spina di rosa, sembra un epilogo coerente: il poeta che si lascia trafiggere dalla delicatezza.
Ogni volta che si torna a Rilke, la sua voce ci obbliga a rallentare. È come se ci dicesse: guarda meglio, ascolta più a fondo, non avere fretta di capire. La sua poesia è un esercizio di attenzione, un invito a vivere con radicale intensità. Non è un autore che si legge di fretta: bisogna lasciarsi abitare dai suoi versi, permettere che sedimentino. E allora accade qualcosa: la vita quotidiana, con le sue piccole cose, si illumina. Un bicchiere d’acqua, una finestra aperta, un volto amato: tutto diventa degno di canto.
«Il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi, molto prima che accada», scrive nelle Lettere a un giovane poeta. Il tempo in Rilke si sospende, perché ciò che conta è occorre a convivere con l’assenza, con il vuoto, con l’invisibile. In questo senso è un maestro di spiritualità laica, capace di insegnarci che la profondità non ha bisogno di dogmi. A centocinquant’anni dalla sua nascita, il suo lascito è più vivo che mai: ci invita a non avere paura del mistero, a non ridurre la vita a ciò che si può misurare. La poesia, per lui, è un atto di fiducia: credere che le parole possano aprire varchi, che il silenzio possa diventare canto.
Celebrarlo oggi significa riconoscere che abbiamo ancora bisogno di lui. Non per ripetere i suoi versi, ma per imparare da quella postura interiore: la capacità di restare aperti, vulnerabili, disponibili. Rilke ci insegna che la vera forza non è la durezza, ma la delicatezza. E che la poesia, quando è autentica, non è un lusso: è un modo di respirare.

150° anni nascita di Rainer Maria Rilke
La corrispondenza 03.12.2025, 07:05
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