Letteratura

Robert Walser: essere, apparire o scomparire?

“L’assistente”, capolavoro dello scrittore di Bienne: una riflessione sulla condizione umana tra normalità e abissi, più attuale che mai nell’era dei social

  • Ieri, 17:00
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Documentario-dibattito su Robert Walser

RSI Cultura 18.04.2023, 11:46

Di: Mattia Mantovani 

«Nessuno ha il diritto di comportarsi con me come se mi conoscesse», dice il protagonista e alter-ego di un suo tardo brano in prosa intitolato non a caso Il bambino, che esprime fin dal titolo l’idea del “farsi piccoli” e del vivere “nelle regioni inferiori” quale unico modo per evitare lo scontro con le pretese, le ingiurie e le finzioni della cosiddetta “realtà”. Il che è vero, è un principio poetico e conoscitivo ed è anche una perfetta autodefinizione, perché Robert Walser è uno scrittore apparentemente semplice e “leggero” (beninteso, nel senso nobile e nietzscheano del termine), ma rimane piuttosto inafferrabile e misterioso nella sua essenza più profonda.

Ci sono molte belle definizioni che circoscrivono la sua vicenda umana e poetica, ma nessuna riesce a penetrarne definitivamente il segreto, che in ultima analisi ne costituisce anche il fascino. Un lettore di spicco come Robert Musil, ad esempio, riteneva –esagerando, ma non senza una dose di verità – che Kafka fosse semplicemente «un caso particolare del tipo Walser» (perché i personaggi di Kafka sono variazioni in chiave assurda e grottesca, con un’aggiunta di gustosissimo humour ebraico, delle esistenze marginali e dei viandanti solitari di Walser), mentre Hermann Hesse aveva detto che se Walser avesse avuto centomila lettori, il mondo sarebbe diventato un luogo migliore e non ci sarebbero state più guerre.

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Brano da "La passeggiata" letto da Adalberto Andreani

RSI Cultura 15.12.2017, 08:29

Una definizione sicuramente molto poetica, quella di Hesse, ma prosaicamente smentita dai fatti: riscoperto e giustamente rivalutato dopo la morte come uno dei più grandi scrittori di lingua tedesca del Novecento, tradotto in molte lingue, Robert Walser possiede oggi ben più di centomila lettori sparsi per il mondo, ma il mondo stesso non è affatto diventato un luogo migliore e le guerre continuano a martoriare questo povero e sciagurato pianeta. La valutazione più precisa, che costituisce anche il punto di massima vicinanza al mistero di Walser uomo e scrittore, è con ogni probabilità quella di Walter Benjamin, che fu il primo a posizionare la sua opera all’interno di un più ampio contesto culturale e si espresse in questi termini a proposito dei personaggi dei brani in prosa e soprattutto dei tre romanzi, I fratelli Tanner, L’assistente e Jakob von Gunten, scritti dal trentenne Walser tra il 1907 e il 1909: «Hanno dietro di sé la follia, e per questo rimangono di una superficialità così lacerante, così completamente inumana, così impassibile. Se volessimo descrivere con una parola quello che essi hanno di felice e perturbante, potremmo dire che sono tutti “guariti”».

Ci sono anche Simon Tanner, Jakob von Gunten, Theodor, Helbling, Oskar (che ama passeggiare nelle «vie nascoste tra le alte siepi»), Felix e i molti “io” (non solo uomini, ma anche animali) dei brani in prosa, ma il “guarito” per eccellenza, tra i personaggi e alter-ego di Walser, è con ogni probabilità l’elusivo, sfuggente e in definitiva del tutto incomprensibile Joseph Marti, l’“assistente” protagonista dell’omonimo romanzo del 1908 ambientato nella cittadina di Wädenswil (Bärensweil, nella reinvenzione letteraria) sul Lago di Zurigo, più precisamente nella villa “Stella Vespertina” di proprietà del vulcanico quanto inconcludente ingegnere e inventore Tobler. Come sempre in Walser, che solo all’apparenza è uno scrittore scopertamente autobiografico, anche nell’Assistente è tutto vero perché è tutto inventato ed è tutto inventato perché è tutto vero, ma di una verità indecifrabile, per la quale non esiste nessuna “scienza esistente”, come si dice in un passo particolarmente rivelatore.

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La recensione di Mattia Mantovani

RSI Cultura 22.11.2018, 10:23

L’unico dato inoppugnabile e oggettivamente vero è che il venticinquenne Walser, dall’estate all’inverno del 1903, lavorò come assistente o “tuttofare” (che sarebbe forse una traduzione più corretta del volutamente arcaico Gehülfe del titolo originale) nella villa “Stella Vespertina” di Wädenswil per conto di un tale ingegner Dubler, col quale intrattenne un rapporto piuttosto burrascoso che si concluse col dissesto finanziario di Dubler/Tobler e il licenziamento di Walser/Marti, che nella scena conclusiva, insieme a Wirsich, suo predecessore nel ruolo di assistente, riprende la vita di viandante e girovago («Si voltò ancora una volta a guardare la casa, la salutò mentalmente, poi andarono oltre»), scivolando nuovamente in quello stesso nulla da cui era emerso non si come e perché nella prima scena, suonando il campanello della villa («Una mattina alle otto un giovanotto stava davanti al portone di una casa appartata, graziosa all’aspetto. Pioveva. “Sono quasi sorpreso”, pensò, “di avere con me un ombrello”»).

L’assistente o tuttofare Joseph Marti è il più “guarito” dei personaggi di Walser perché nelle oltre duecento pagine di questo romanzo, a differenza de I fratelli Tanner e Jakob von Gunten, che muovono da una certa psicologia dei personaggi e hanno una trama e uno svolgimento ben precisi, non accade assolutamente nulla che prescinda dalle dinamiche interne alla famiglia Tobler (l’ingegnere, la moglie, i quattro figli e la scontrosa e ruvida serva Pauline) vissute e considerate dalla prospettiva di Marti. Il che è ancora più sorprendente e straniante, se si pensa che L’assistente è il più “tradizionale” dei romanzi di Walser, molto simile in termini di struttura narrativa ai coevi Peter Camenzind e Sotto la ruota di Hesse e I turbamenti del giovane Törless di Musil e del tutto privo di talune slogature ritmiche, se così le si può definire, presenti ne I fratelli Tanner e soprattutto in Jakob von Gunten, costruito in virtù di una tecnica del collage che sembra anticipare il “flusso di coscienza” poi sviluppato e perfezionato da Joyce.

E che Joseph Marti sia definitivamente “guarito”, abbia alle proprie spalle la “follia” – comunque la si voglia intendere – e rimanga quindi di una superficialità lacerante, completamente inumana e impassibile, per riprendere la definizione di Benjamin, lo si capisce soprattutto da una domanda che gli viene posta dalla bella, indolente e sussiegosa moglie di Tobler ben oltre la metà del romanzo: «Non sono ancora riuscita a comprendere il suo carattere. E’ forse magnanimo? Oppure è abietto?». Non c’è risposta, perché le categorie di “carattere”, “magnanimità” e “abiezione”, come del resto tutte le categorie che rendono possibile ma insieme limitano e soffocano il consorzio umano, per tutti i personaggi di Walser ma in particolare per Joseph Marti non hanno più alcun senso, e forse non lo hanno mai avuto. Non bisogna quindi credere allo stesso Walser, che evidentemente aveva voluto prendersi gioco in maniera molto canaille della seriosità e delle smanie interpretative dei letterati di professione, quando aveva definito questo suo romanzo nient’altro che un «compendio di vita quotidiana svizzera» e aveva chiesto al già celeberrimo collega Thomas Mann di «dimenticarsi, almeno ogni tanto, di essere così famoso».

Lo scenario costituito dalla vita quotidiana svizzera è in realtà una quinta di cartapesta, mentre l’idillio, rappresentato non solo simbolicamente dalla placida quanto ingannevole e infida superficie del Lago di Zurigo, è solcato da crepe e fenditure dalle quali è possibile gettare lo sguardo in profondità non propriamente ospitali. Quella che Walser evoca ne L’assistente è una normalissima e insieme abissale quotidianità, dove tutto sembra perfetto e perfettamente regolato, ma che non offre vie d’uscita, nessuna autentica speranza, nessun respiro vitale, solo una ferialità senza scampo e lo sdrucciolio del tempo che passa, si incurva e alla fine si perde da qualche parte, non si sa dove e perché. Essere, apparire o scomparire? Nella società dell’immagine e della comunicazione, dove tutti vogliono far sapere agli altri della propria esistenza, è una domanda che meriterebbe davvero una serie riflessione, magari prendendo spunto della vicenda umana e poetica di Robert Walser e dalla percezione dell’esilio (la lontananza da un “dove” non meglio definito e definibile) come dato di fondo della condizione umana.

«E’ forse magnanimo? Oppure è abietto?». Joseph Marti, in questo molto simile allo scrivano Bartleby di Melvile col suo enigmatico «Preferisco di no», non risponde alla domanda della petulante signora Tobler. Perché non c’è risposta, ma più ancora – molto semplicemente – perché non c’è niente da dire.  L’assistente è il romanzo più “romanzesco” di Walser, forse non è il più bello (Jakob von Gunten gli è oggettivamente superiore), ma sicuramente è il più inquietante, “eversivo” e profetico, perché il silenzio di Joseph Marti al cospetto della signora Tobler diventerà poi il silenzio stesso di Robert Walser, che a causa di una discutibile e frettolosa diagnosi di schizofrenia ha trascorso quasi un quarto di secolo in una clinica per malattie mentali e in una delle sue ultime prose poetiche, prima di posare definitivamente la penna e chiudersi in un lungo silenzio, aveva scritto: «Non auguro a nessuno di essere come me, di sapere tante cose, avere visto tante cose e non avere nulla, così nulla da dire».

Sono parole che esprimono con la massima concisione l’irrisolta dialettica tra essere, apparire e scomparire. Oggi più che mai, sembrano raggiungerci da una vicinissima lontananza. Esattamente come quelle del giovane impiegato Helbling, che conclude in questo modo il racconto della propria storia: «In fondo, dovrei essere solo al mondo, io, Helbling, e nessun altro essere vivente. Nessun sole, niente civiltà, solo io nudo su una roccia, nessuna tempesta, nemmeno un’onda, niente acqua, niente vento, niente strade, nessuna banca, niente denaro, nessun tempo e nessun respiro. Nessuna paura, e più nessuna domanda, e non arriverei neanche più in ritardo in ufficio. Vorrei immaginarmi di trovarmi a letto, a letto per l’eternità. Forse sarebbe la cosa migliore».

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