Letteratura

Salambò, il terzo capolavoro di Flaubert

Insieme a “Madame Bovary” e “L’educazione sentimentale”, illumina il presente della nostra grettezza piccolo-borghese attraverso l’insegnamento dell’antico

  • 29 maggio, 15:11
Gustave Flaubert
Di: Marco Alloni 

L’impresa narrativa di Gustave Flaubert è l’espressione eloquente – per certi versi anche paradigmatica – che quando un autore è grande lo è a prescindere dalle tematiche e dalle ambientazioni con cui la sua opera si misura. Detto in altre parole: è molto probabile che quando un autore è di primissimo livello, qualsiasi argomento passi sotto il suo sguardo diventi prezioso o addirittura un capolavoro.

Con Flaubert la prova di questo «miracolo del genio» l’abbiamo osservando la differenza abissale che corre tra i suoi due romanzi maggiori, Madame Bovary e L’educazione sentimentale, e un romanzo apparentemente minore, ma a sua volta straordinario, come Salammbò.

Nell’opera di Flaubert Salammbò rappresenta un testo di rottura radicale rispetto agli assi in cui si sono mossi gli altri suoi lavori. Una rottura che si manifesta almeno a un duplice livello: quello temporale e quello geografico. Non siamo infatti più, con Salammbò, nella Francia ottocentesca e piccolo-borghese che ha dato corpo alle sue riflessioni più intense sull’uomo e sull’amore, ma nella Cartagine delle guerre puniche, quindi in un tempo e in uno spazio perfettamente irrelati da quelli delle sue produzioni più note.

Questo doppio salto non è tuttavia soltanto una scelta estetica. Esso rappresenta una precisa volontà di Flaubert di rompere con l’ambiente culturale in cui egli ha vissuto e di aprirsi a un mondo che tale ambiente borghese – per molti aspetti, almeno ai suoi occhi, gretto e immorale – è in grado di illuminare per contrasto. Salammbò è infatti un affondo in un universo che racconta una dimensione dell’uomo con cui la borghesia ha cessato di fare i conti da tanti, troppi secoli.

Siamo in effetti in un mondo dove a farla la padrone è la primitività in tutte le sue sfaccettature. Una primitività che non solo riporta Flaubert al suo antico amore per il Mediterraneo, alle sue suggestioni esotiche, ai suoi richiami «selvaggi», ma che è in grado di riconsegnarci un’immaginazione dell’uomo come la modernità europea l’ha fatto dimenticare.

Oltre a questi due assi – quello temporale e quello geografico – Flaubert affonda però in Salammbò anche in un’altra dimensione narrativa: quella terminologica. La sua lingua conserva la densità, la lucidità e la precisione delle sue opere più riconosciute, ma allarga a una terminologia (soprattutto oggettuale) che non ha precedenti in tutto il suo lavoro.

Soprattutto nella prima parte del romanzo, il lettore è esposto a un senso di straniamento, per così dire, lessicale. Perché, con una puntigliosità al limite del maniacale, Flaubert descrive la realtà di Cartagine ai tempi delle guerre puniche affidandosi a un’esattezza quasi esasperante.

Impossibile naturalmente dare una sintesi di questi capitoli inaugurali. Ma certo si riconosce che decine, forse centinaia di termini praticamente sconosciuti alla nostra modernità – o almeno ai non addetti ai lavori – compaiono quasi a rimarcare plasticamente la distanza che ci separa da quel mondo. Oggetti, utensili, armi, decorazioni, divinità, culture, lingue, aree di provenienza si mischiano tra loro in un fastello di voci e rimandi che sembrano tratteggiare la mappa di un universo addirittura più incognito di quello propostoci dagli storici. Per cui tutto avviene come dentro una «bolla di identificazione», di immedesimazione in qualcosa di infinitamente antico e infinitamente sconosciuto.

Pure Flaubert, da grande maestro quale è, non dimentica di tracciare il suo racconto con la linearità che gli è propria. E in questo racconto veniamo messi a parte – oltre che della straordinaria figura di Salammbò, l’inquieta e mitica figlia del generale cartaginese Amilcare – anche di tutto ciò che nei libri di Storia viene generalmente trattato marginalmente: la conflittualità che veniva instaurandosi, durante le guerre puniche, tra la Repubblica di Cartagine e i Mercenari da essa assoldati, da ogni parte del Mediterraneo, per servirla.

Scopriamo così che dentro il «macrocosmo» che oppone Roma a Cartagine si annida il «microcosmo» di una guerra ancora più cruenta: quello intestino agli stessi soldati della sponda sud del Mediterraneo. I Mercerani escono infatti dall’ultima battaglia e si avviano verso le rispettive regioni a drappelli di centinaia e centinaia di soldati. Ma presto si rendono conto che dalla Repubblica di Cartagine è stato tramato di punirli per i loro saccheggi e le loro ruberie e di non pagarli il dovuto per il servizi prestati. Per cui gli stessi Mercenari decidono di rientrare a Cartagine, dopo essere partiti in sella ai loro destrieri o a piedi, e di ingaggiare una impietosa guerra contro la Repubblica.

Questo, in estrema sintesi, il piano del libro. Il quale però appunto non concerne soltanto questi aspetti storici, bensì la natura umana che in essa viene espressa e delineata. Una natura che ci insegna come di quel tempo antico mille ricchezze ci rimangono sconosciute, mille universi rimangono ignoti, e le grandi doti dell’umano, quando dovette misurarsi con l’immediatezza della morte e del dolore, delle torture e della battaglie a mani nude, della violenza primigenia e della mescolanza tra popoli che nemmeno conoscono gli uni la lingua degli altri, si esprimono in tutta la loro potenza.

Un romanzo dunque che ci fornisce almeno due diverse chiavi di lettura: quella antropologico-morale e quella storico-documentaristica, quella più propriamente narrativo-filosofica e quella storica. Due dimensioni che si intrecciano tra loro durante tutta la narrazione, insegnandoci che nell’antico è annidanta certamente la differenza radicale, ma, nello sguardo innamorato di Flaubert, anche una qualche forma di superiorità: quella che l’uomo moderno occidentale, viziato dai lussi e dalle comodità, ha dimenticato di possedere. La superiorità di chi la vita la deve vivere nell’immediatezza del bene e del male senza alcuna mediazione tra sé e l’altro.

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