Letteratura

Lo scrittore che mette insieme Stephen King e Wes Craven

Jean-Baptiste Del Amo ha costruito un racconto del terrore fatto di case infestate e mostri in cui, come sempre, a fare la figura peggiore sono gli umani. Intervista all’autore che ha portato la lezione dei maestri americani dell’horror nella Francia degli anni Novanta

  • Oggi, 15:00
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  • IMAGO / opale.photo
Di: Alice / Michele R. Serra 

Durante gli anni delle medie e il primo anno del liceo, avevano visto centinaia di film horror degli anni ’80: Nightmare di Wes Craven, Halloween e La Cosa di John Carpenter, Venerdì 13 di Sean S. Cunningham. Videodrome, Inseparabili e La mosca di David Cronenberg, i film di zombie di George A. Romero o Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato. Perfino i “mondo movie” di Conan Le Cilaire, Le facce della morte, una compilazione di scene splatter pseudo-documentaristiche. Julien Santoro, un compagno di classe, dopo uno di quei film aveva vomitato nel vaso di un ficus che la madre di Max aveva in salotto e gli avevano fatto giurare di non dirlo ai suoi genitori quando chiese di tornare a casa, imbarazzato e bianco come un lenzuolo.

Al di là del semplice brivido, nella rappresentazione dell’orrore li affascinava qualcosa non necessariamente legato alla singolarità di ognuno di quei film, quanto a ciò che li attraversava tutti: la volontà di enunciare una verità, di materializzare e trascendere le paure di un’epoca. Shining, Non aprite quella porta o Halloween, di cui sentivano la carica sovversiva e la bellezza formale, non li mettevano sullo stesso piano di Gli Schizzacervelli, Hellraiser o La Casa che comunque ai loro occhi restavano dei classici e che si godevano esaltandosi, anche se oscuramente intuivano che quel cinema parlava di una parte della loro esistenza, di quel malessere che provavano senza potergli dare un nome.
L’orrore dava forma alla loro indifferenza nei confronti del mondo, al loro senso di estraneità, alla loro assenza totale di prospettive, ma anche ai loro desideri profondi.

(Jean-Baptiste Del Amo, La notte devastata, Feltrinelli 2025)

19:28
"La notte devastata" di Jean-Baptiste Del Amo, Feltrinelli

“La notte devastata”

Alice 13.12.2025, 14:40

  • Feltrinelli
  • Michele Serra

Adolescenza, horror, anni Novanta: sono gli ingredienti di La notte devastata di Jean Baptiste Del Amo. Un gruppo di ragazzini nella provincia francese, alla fine del ventesimo secolo: amano guardare film dell’orrore, non sanno che presto lo incontreranno davvero. Una vecchia casa abbandonata li attirerà a sé, seguiranno incontri molto ravvicinati con pericolosi mostri. Come spesso accade, però, in questa storia a essere orribili sono anche le famiglie, i rapporti tra le persone, che spesso sotto una patina di normalità nascondono la violenza e la follia.

Jean-Baptiste Del Amo scrive horror vero, nonostante non sia uno specialista del genere: prima di questo La notte devastata ha scritto una storia di formazione con molto sesso, ambientata nella seconda metà del Settecento, e poi una saga familiare rurale che parte dalla prima guerra mondiale. Insomma, è uno a cui piace esplorare mondi diversi, e per fortuna. Qui però ci ha messo molta della sua esperienza di vita: il racconto è ambientato negli anni Novanta, periodo in cui anche lui era adolescente, non solo i protagonisti.
Dicevamo: provincia, adolescenti, horror. Facilmente viene in mente Stephen King, e che l’impressione sia giusta lo conferma subito la citazione che apre il libro, da IT. L’ombra di King aleggia su La notte devastata, che, come ammette lo stesso Del Amo, è l’omaggio sincero di un fan.

«Ci tenevo molto ad aprire il romanzo con questa citazione di Stephen King - racconta l’autore - perché, bè, penso che sia bravissimo. Un grande narratore, un grande cantastorie. Certo, ci sono statti altri grandi scrittori horror prima di lui, come ad esempio Lovecraft, che però raccontava l’orrore in maniera diversa: Lovecraft lo raccontava come qualcosa che stava al limite, alla frontiera, qualcosa di scuro, qualcosa di indescrivibile… non era dentro la nostra vita quotidiana. Stephen King invece ha radicato l’orrore nella nostra quotidianità: nelle nostre famiglie, nelle nostre case, nella nostra routine… racconta in questo modo anche quella che è la nostra epoca: i mostri che si sono generati dalla nostra epoca e nella nostra epoca. Quindi da un lato ci tenevo a fare un omaggio a Stephen King, dall’altro a mettere bene in chiaro che io seguivo la sua di scia, e che a mio modo, voglio raccontare i miei, di mostri».

Michele R. Serra: Stephen King, ma anche Wes Craven: Nightmare è citato più volte, e il tema del sogno - dell’incubo - torna sempre, pagina dopo pagina.

Jean-Baptiste Del Amo: Wes Craven ha fatto qualcosa di straordinario: l’idea di questo personaggio, Freddy Krueger, capace di arrivare alle sue vittime attraverso i sogni… il fatto è che tutti sogniamo, e quando sogniamo, in buona sostanza dovremmo essere al massimo della sicurezza: siamo rilassati, stiamo dormendo… ecco che lui invece fa succedere qualcosa di completamente diverso: il mostro compare, e riesce ad arrivare a questi ragazzi nel momento e nell’ambiente in cui dovrebbero sentirsi più sicuri: a casa loro, con la loro famiglia, nella loro stanza, nel loro letto. Questa idea di Nightmare è veramente geniale. E pensiamo anche al rapporto con i genitori: i genitori dovrebbero proteggerli, questi adolescenti, invece loro sanno la verità e non gliela dicono, e poi a un certo punto diventano quasi la minaccia loro stessi. C’è ad esempio una scena bellissima, in cui la madre della protagonista Nancy decide di mettere le sbarre alle finestre della casa, non rendendosi conto che così la mette ancora più in pericolo, perché non può più fuggire…
Comunque, tutto in Nightmare parla della vita in questi sobborghi americani di provincia, tutti perfettini in teoria, poi in pratica un po’ meno.
Un’altra cosa che mi affascina è che Nightmare racconta l’adolescenza, e racconta una minaccia che è causata dalla generazione precedente. Freddy Krueger arriva a tormentare quei ragazzi perché vuole vendicarsi dei loro genitori, che sono quelli che lo avevano ammazzato. E non solo l’hanno fatto, ma in più non ne parlano ai loro figli, non riescono a comunicare con loro, quindi c’è un ulteriore significato simbolico, che racconta il rapporto tra gli adolescenti e i genitori. 
Per me è stato un film molto importante, ai tempi, poi l’ho rivisto quando scrivevo il libro, ed è validissimo ancora oggi, cosa che non accade sempre. Cioè, se uno oggi si guarda l’esorcista, si chiede come mai quando è uscito abbia fatto così scalpore. E invece Nightmare è uno di quei film che, ancora oggi, li guardi e resti assolutamente affascinato.

"La notte devastata" di Jean-Baptiste Del Amo, Feltrinelli

"La notte devastata" di Jean-Baptiste Del Amo, Feltrinelli

  • Feltrinelli

Sottotraccia, il racconto è attraversato dall’inquietudine di una intera generazione. La postfazione cita lo storico americano Martin Jay, che parla di Uncanny Nineties, dove uncanny è la traduzione a sua volta del termine tedesco unheimlich, dal celebre saggio di Sigmund Freud del 1919, che significa qualcosa come “inquietante estraneità”: è qualcosa di esclusivo di quella generazione? Verrebbe da pensare il contrario.

Io penso di essermi riferito proprio all’identità specifica di noi che siamo stati adolescenti negli anni Novanta. Siamo venuti dopo i nostri genitori, che erano adolescenti tra Sessanta e Settanta… in Francia, ma credo anche negli altri paesi europei, sono stati gli anni delle grandi battaglie sociali, e loro sono cresciuti tra queste lotte, con la libertà di fare cose che prima non si potevano fare, aspirando ad avere sempre maggiori diritti, maggiori libertà, un desiderio di emancipazione che ha caratterizzato tutti gli anni del loro sviluppo. Ma poi sono diventati adulti, hanno cominciato ad avere delle famiglie, e hanno rinunciato a questi ideali. Noi siamo cresciuti un po’ con l’idea di dover ripetere le esperienze giovanili dei nostri genitori, ma ovviamente le condizioni erano molto diverse: c’era l’AIDS, tanto per dire. E poi, ad esempio in Francia negli anni 90 c’era molta disoccupazione… credo che nell’aria ci fosse un po’ questa sorta di malinconia, un languore, una sensazione che i nostri genitori fossero cresciuti con tanti ideali e senza sentirsi perennemente minacciati da qualcosa. Poi a pensarci, in realtà anche noi avevamo molta libertà: non c’erano i social media, non c’erano guerre che ci toccassero direttamente, non c’erano le impellenze derivate dalla crisi ambientale... nonostante il fatto che non avessimo tutte queste preoccupazioni, è come se dentro di noi ci fosse questo senso di inquietudine, di insoddisfazione, di malinconia.

La notte devastata si svolge in una immaginaria cittadina di provincia simile alla banlieue vicino a Tolosa dove lei è realmente cresciuto. Dicono che la provincia non si lascia mai veramente: è vero?

Io, più che una questione, come dire, geografica, ne farei una questione di appartenenza a una determinata classe sociale. Io posso dire che sono cresciuto con la consapevolezza di far parte di un gruppo sociale specifico, che mi ha dato accesso a determinate idee, a certi ragionamenti e certi valori che poi ho fatto miei, e mi sono portato dietro fino a oggi. Accesso, anche, a un certo tipo di letteratura, e a tematiche che io adesso esprimo attraverso la mia, di letteratura. C’è una parte di me che è stata definita da questa appartenenza. Poi, certo, io sono andato via da quei paesi, mi sono trasferito a Parigi, ho fatto tante esperienze di vita diverse, però comunque mi è rimasto un po’ sempre addosso questo senso di nostalgia, per una certa Francia che in realtà ormai non esiste più. Non esiste nella concretezza, anche se i miei genitori abitano la stessa casa in cui io sono cresciuto da piccolo, anche se io ci ritorno in quella casa. Perché è cambiato tutto: sono cambiati loro, è cambiata la vita, le dinamiche, e sono cambiato anch’io. Però resta il fatto che la mia infanzia mi ha plasmato, mi ha fatto diventare la persona che sono adesso.

Perché gli adolescenti sono tanto interessanti, per chi scrive horror?

Sono due gli aspetti principali dell’adolescenza che mi interessano. Da una parte c’è il fatto che è un’esperienza universale: magari ci possono essere delle differenze a livello culturale, a livello sociale, però resta il fatto che l’esperienza dell’adolescenza l’abbiamo fatta tutti. La trasformazione fisica, la scoperta del desiderio, la prima delusione d’amore, ma anche i sogni: nell’adolescenza ti senti più libero di sognare, e al tempo stesso ti senti un po’ prigioniero di questa dimensione in cui vivi. Tutti abbiamo vissuto esperienze del genere, e quindi i lettori si ritrovano, quando parli di adolescenza.
Ma c’è anche un altro aspetto interessante, e cioè il fatto che comunque l’adolescenza, da un punto di vista più metaforico, rappresenta un po’ la perdita dell’innocenza: l’adolescenza indica un periodo in cui abbiamo perso qualcosa, in cui c’è qualcosa che è giunto alla fine. L’infanzia finisce, quel mondo finisce, e ci ritroviamo a vivere in una realtà più violenta, che è quella che caratterizza il mondo degli adulti. E secondo me è anche quello che ci sta succedendo collettivamente adesso: tutti ci siamo resi conto che, santo cielo, ci troviamo in un mondo veramente violento, che non si torna indietro. E che il tempo dell’innocenza è finito.

Crede sia ancora possibile destabilizzare, scioccare il lettore con un libro, nell’anno 2025?

Devo confessare una cosa: io come scrittore sono molto egoista. Quando scrivo un libro, non penso a come reagirà il lettore, se sarà scioccato, se sarà destabilizzato… Io scrivo per me stesso, in primis. I lettori arrivano dopo. Qui, ad esempio, in Notte devastata, cosa ho scritto? Ho scritto quelle che sono le mie paure. Se fossi uno dei ragazzini protagonisti del libro, mi ritroverei davanti esattamente le stesse paure, perché sono le mie paure, sono i miei desideri, quelli che ho messo nella storia.
Secondo me è proprio qui che sta la grande forza della letteratura: ci fa percepire la vita reale, ci fa provare dal punto di vista fisico, affettivo, emotivo, una serie di cose che nella vita quotidiana ci sfuggono. Ad esempio, se sentiamo al telegiornale che c’è stato un bombardamento su Gaza, che sono morte 400 persone, donne, bambini… è una notizia incredibilmente drammatica, ma rimane un po’ un concetto astratto, è come se non riuscissimo veramente a capirne le implicazioni. Invece attraverso la letteratura riusciamo a ricollegarci alla nostra umanità, quindi secondo me la letteratura oggi è più importante, ancora più essenziale di quanto sia stata in passato. Certo, c’è il fatto che il numero dei lettori diminuisce, anno dopo anno, e questo magari ci dice qualcosa del mondo, del modo in cui sta cambiando il nostro rapporto con l’esterno, e anche il nostro rapporto con gli altri.

Cosa ne pensa dell’horror cinematografico di questi anni, quello che è stato chiamato “elevated horror”?

Io francamente non ne posso più, di questa idea dell’ “elevated horror”: è solo un esercizio intellettuale di qualcuno che ha pensato di complicare le cose più del dovuto, quando in realtà l’horror è un genere che è assolutamente popolare, e che deve restare tale. È come se a un certo punto qualcuno avesse deciso: ma sì, facciamo un horror lanciamoci anche su questo. Ma lo facciamo in maniera un po’ diversa, senza prendere una posizione precisa, ma buttandoci sull’estetismo. È un prodotto dell’ipocrisia che caratterizza i nostri tempi, e anche il cinema in generale. Secondo me l’horror si porta dietro una serie di tradizioni, di riferimenti, su cui poi costruisce. Io ad esempio faccio letteratura non “di genere”, di solito, quella che in Francia si chiama “letteratura bianca”. Quando mi sono deciso ad approcciare il genere horror mi sono detto: bene, lo voglio fare, però lo farò con grandissimo rispetto per quello che è il genere horror, alla luce di tutto quello che è stato fino ad oggi.

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