Nel tempo della crisi permanente — climatica, sociale, geopolitica, algoritmica — l’arte è chiamata a giustificarsi. «A cosa serve?» è la domanda che rimbalza tra biennali, talk show e social network, come se la bellezza avesse bisogno di un permesso per esistere. Ma siamo sicuri che l’arte debba servire a qualcosa?
La provocazione è antica. Già Oscar Wilde, nel suo Preface to The Picture of Dorian Gray (1890), scriveva: «All art is quite useless.» Non per cinismo, ma per difendere l’autonomia dell’estetica contro la tirannia del moralismo. L’arte, dice Wilde, non è propaganda, non è pedagogia, non è servizio civile. È esperienza, vertigine, disordine.
Eppure oggi l’arte è sotto processo. Deve essere «inclusiva», «sostenibile», «militante». Deve parlare di Palestina, di clima, di razzismo, di genere. Deve essere «utile», come se fosse un’app da scaricare. Ai Weiwei, Banksy, JR: artisti che trasformano l’opera in denuncia, il museo in tribunale, il pubblico in giuria. E va bene così. Ma cosa succede se l’arte diventa solo questo?
Le avventure di uno scrittore pendolare
Nero su bianco 09.11.2025, 18:30
L’arte non nasce per essere utile, ma per scavare nel profondo, per inquietare, per aprire ferite nel reale e mostrarne le crepe. Qualche grande esempio, un po’ alla rinfusa: Dostoevskij non voleva educare, ma ferire, perché la bellezza — quella vera, tragica, irriducibile, quella che «salverà il mondo» — non consola, ma disarma; Virginia Woolf, opponendosi alla guerra e al patriarcato, non ha mai piegato l’arte a uno scopo, ma l’ha resa resistenza silenziosa contro l’omologazione: «La bellezza e il silenzio si stringevano la mano nella camera da letto», scrive in Gita al faro, a conferma che l’arte è un linguaggio che parla anche quando tace; Calvino ha chiesto all’arte leggerezza, esattezza, molteplicità, perché solo l’arte può planare sulle cose dall’alto, libera da ogni funzione; e Camus, immerso nell’assurdo, ha visto nell’arte il diritto di dire no, di non aderire, di non servire — perché l’arte, in fondo, è ciò che ci salva dal dover essere utili: «L’artista si forma nel silenzio, nel rifiuto, nella solitudine», afferma nei suoi Discorsi di Svezia.
La vera provocazione, oggi, è difendere l’inutilità dell’arte. Perché l’inutile è ciò che resiste alla logica del profitto, del calcolo, della funzione. L’inutile è ciò che ci salva dalla tecnocrazia. In un mondo dove tutto è misurabile, l’arte è l’ultima zona franca dell’indicibile.
Claire Bishop, nel suo saggio Artificial Hells, critica l’estetica relazionale e l’arte «socialmente impegnata» che sacrifica la forma per il contenuto, l’ambiguità per il messaggio. «L’arte non deve essere buona, deve essere interessante», scrive. E, infatti, l’arte non è un programma politico, è un campo di tensione. Non si tratta di tornare all’estetismo ottocentesco, ma di riconoscere che l’arte non è un mezzo, è un fine. Non è uno strumento, è un linguaggio. Non è una risposta, è una domanda.
Come scrive Georges Didi-Huberman: «L’arte non consola, ma inquieta. Non spiega, ma apre.» E allora sì, l’arte può essere utile. Ma solo se non lo è per forza. Può parlare di giustizia ambientale, di migrazioni, di guerre. Ma deve farlo con ambiguità, con ironia, con forma. Deve essere libera di fallire, di disturbare, di non piacere. Perché l’arte che piace a tutti è pubblicità.
E allora, l’arte deve essere utile? No. Deve essere necessaria. E la necessità non si misura in funzione, ma in intensità. L’arte è necessaria perché ci ricorda che siamo più che algoritmi, più che consumatori, più che cittadini. Siamo esseri estetici, tragici, inutili. E proprio per questo, umani.




