In contemporanea con l’uscita di Killers of the Flower Moon, di Martin Scorsese, viene pubblicata anche la colonna sonora del film.
L’ha curata di Robbie Robertson, il chitarrista (già componente al gruppo rock canadese-statunitense “The Band”) e compositore legato al regista italoamericano dai tempi di “The Last Waltz” ed è uscita il 19 ottobre per Sony. Come in altre precedenti collaborazioni, anche qui Robertson crea atmosfere in perfetto accordo con le immagini, crude e impietose con le quali Scorsese racconta una storia vera e assai poco edificante, di cupidigia e genocidio ambientata nell’America degli anni Venti.
La storia è quela della tribù indiana degli Osage che si ritrova improvvisamente ricca grazie ai giacimenti petroliferi presenti sul proprio territorio e per questo viene assediata, blandita, truffata e massacrata dai predatori bianchi.
Una canzone inedita, sprazzi di blues e dixieland, armonica e chitarra ma soprattutto voci e suoni dei nativi resi credibili da un musicista figlio di un’indiana Mohawk che da ragazzino frequentò la Riserva delle Sei Nazioni nell’Ontario: questo e altro compongono quella che la critica all’unanimità ha già definito la migliore colonna sonora dell’ex-leader della Band.
Il quale non ha avuto la possibilità di verificarne l’impatto sul pubblico perché se n’è andato due mesi fa, il 9 agosto, poco dopo aver compiuto 80 anni.
Un’amicizia lunga più di 40 anni, quella fra Robbie Robertsone Martin Scorsese, uomo di cinema da sempre devoto al rock che ha omaggiato in vari documentari (Dylan, Rolling Stones, George Harrison), in una serie tv sui grandi del blues oltre a includere canzoni in molti dei suoi film.
Ascoltando le musiche di Killers of the Flower Moon si viene trasportati in un’America che non avremmo voluto conoscere: quella che giustificava soprusi in nome del dio denaro e negli stessi anni condannava alla sedia elettrica due italiani innocenti come Sacco e Vanzetti.
Con questa sua ultima creazione Robbie Robertson riesce ad aggiungere drammaticità a immagini che parlano da sole ma che grazie ai suoni – incisivi, rarefatti, mai consolatori - acquistano una dimensione epica e compongono un testamento spirituale di grandissimo spessore.
- La recensione
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