Sono pochi gli artisti che possiamo davvero chiamare dei “sopravvissuti”, perché il mondo della musica è un tritacarne ed è difficile restarci a lungo, e per dirsi tali bisogna averne passate di ogni tipo. Tanti non sono così “sfigati”, o semplicemente mollano prima. Ma i Green Day rientrano nella categoria, e non solo perché sono in giro da più di trent’anni, hanno tutti superato i cinquanta e di cazzotti ne hanno presi parecchi – la svolta pop di American idiot (2004), per esempio, nacque dopo che i provini su cui stavano lavorando, che dovevano funzionare da rilancio dopo un periodo un po’ così, vennero rubati, e ripartirono daccapo. Sono sopravvissuti perché hanno sconfitto il mostro finale, cioè sono sopravvissuti a sé stessi: hanno ricostruito la propria immagine in funzione della loro età, ma in maniera coerente con il passato. E non era facile, visto che il pop punk di cui sono stati i principali rappresentanti era sinonimo di ribellione, adolescenza, ormoni. Tradotto: una prigione, se si cresce. E si cresce.
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Classic Rock 21.01.2024, 14:00
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Il nuovo album Saviors, quattordicesimo in studio, è invece il migliore dal 2008 a oggi, perché, dopo una lunga e se vogliamo fisiologica fase di indecisioni su cos’essere da grandi, ripensamenti e passi falsi, segna la pace con l’età adulta. Le band dell’ondata montata dopo il loro successo a metà degli anni novanta, epigoni più o meno originali e più o meno validi, odiati da chiunque fosse appassionato di rock e di punk, non ce l’hanno fatta. Blink-182 e Sum-41, per dire, non hanno superato la fase, tra giovanilismi, nostalgia e nuovi lavori che, se arrivano, sono al massimo innocui.
Poi, certo, che Billie Joe Armstrong (frontman e chitarra), Mike Dirnt (basso) e Tré Cool (batteria) fossero diversi si capiva da subito, nonostante venissero altrettanto detestati. Dall’exploit di Dookie per esempio, il disco-manifesto di cui ora ricorre il trentennale, e dove oltre a mostrare doti tecniche e di scrittura, di fatto, s’inventavano il pop punk stesso, oltraggioso verso i miti del passato nel suo non prendersi sul serio e al tempo stesso funzionale, per di più con un immaginario forte e “malato” che i cloni gli avrebbero invidiato – l’espressione stessa “green day”, giorno verde, si riferisce a un giorno trascorso a fumare marijuana, non si portava dietro il machismo del rock ma un’epica da scarafaggi che all’epoca, per quanto pop, era senz’altro “alternativa”. Il risultato era un inno al nichilismo e alla stupidità che dietro, appunto, nascondeva una storia, una malizia, e che in chiave esplicita troverà sbocco dieci anni dopo nell’altro best seller, American idiot (2004): nel momento in cui i compagni di viaggio erano già stanchi, i tre aprivano una seconda vita mainstream, melodica e piena di satira sociale. Dopo di lì, però, la sensazione era che avessero esaurito le cartucce.
E invece, come se non potessero fare a meno di pubblicare dischi di svolta ogni dieci anni, Saviors è un altro momento chiavo: si porta con sé un genere, ed è la risposta perfetta, nonché l’unica, a chi si chiedeva come potesse invecchiare bene il pop punk. Così: senza smentirsi, senza perdere lo spirito e le coordinate originali, ma senza neanche rendersi ridicoli. Il che significa, per loro, una sintesi tra Dookie e American idiot: del primo riprendono il gusto per le melodie killer e lo stile strafottente che l’aveva caratterizzato; del secondo, la satira di costume. La nuova The American dream is killing, tra le tante, è una American idiot 2.0, che alla rabbia e allo screzio aggiunge, già dal titolo, malinconia e disillusione; e lo stesso fanno Coma City e Look Ma, No Brains!. Ma c’è spazio anche per l’intimità di Father to son, forse il pezzo più profondo sul tema della famiglia scritto da Armstrong, che da giovanissimo aveva dedicato al primo figlio l’album Insomniac (del 1995, ricordando le notti in bianco) e nel 2004 il classicone Wake me up when septmber ends al padre, che però, al di là del tragico vissuto che ha dentro, a tratti suonava un po’ piacione. Stavolta è tutto più maturo. E poi l’autoironia: che in loro non era mai mancata fin dagli inizi, ma che adesso diventa indispensabile nello stile come nel look, là dove i cinquant’anni significano continuare a non prendersi sul serio, e non diventare dei venerati maestri – v’immaginate i Green Day a bacchettare i nuovi artisti? Sarebbe la fine del pop punk per come lo intendiamo.
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L’essenza, insomma, non è sparita, nel senso che il loro è sempre un pop punk d’autore, qui ripulito dai sintomi dell’adolescenza. Soprattutto, però, è calato in un contesto nuovo. Non è tanto la morte o meno del punk duro e puro, come suono o come spirito, visto che comunque si parla di un genere a cui i tre guardavano sempre in maniera estremizzata, trasversale, quasi parodistica. Né il fatto che il pop punk, al contrario, eserciti un certo fascino sui più giovani: questi Green Day hanno rinunciato a sedurre le nuove generazione, e va bene così. Non rappresentano più nessuno, se non sé stessi. E una corsa, se c’è, è solo sugli altri gruppi con cui avevano cominciato: loro hanno trovato la chiave per salvarsi, e salvare un genere; gli altri no.