Musica italiana

Quando Vasco ha chiuso con la vita spericolata

I 40 anni di “Cosa succede in città”, l’album della svolta per il rocker di Zocca, celebrati con una ristampa speciale

  • 2 ore fa
Vasco Rossi (secondo da sinistra) con la Steve Rogers Band

Vasco Rossi (secondo da sinistra) con la Steve Rogers Band

  • Imago / Cola Images
Di: Patrizio Ruviglioni 

Si può celebrare l’anniversario di un album di transizione? Sì, se dietro ci si nasconde una svolta artistica destinata a fare la storia della musica e se, soprattutto, a quella stessa svolta sono legate vicende umane dirompenti, da raccontare. È ciò che accade con Cosa succede in città (1985), il settimo album di Vasco Rossi che, per il quarantennale, la sua etichetta di allora, Carosello, ha appena ristampato in un cofanetto extra-lusso con libro a tema, foto e canzoni rimasterizzate su cd e vinile, come già con gli album precedenti in catalogo, dai primi di cui aveva acquisito i diritti, tipo Siamo solo noi (1981), a quello che aveva sancito l’inizio vero e proprio della collaborazione, Vado al massimo (1982). E però, sorpresa: il Vasco di Cosa succede in città non va già più al massimo, anzi tira il freno, con tutte le difficoltà del caso di dover prendere le misure alla nuova dimensione.

A cambiarlo è l’arresto del 20 aprile 1984, quando viene fermato fuori da una discoteca di Bologna nell’ambito di un’inchiesta su scala nazionale sul traffico di droga. Una volta arrivati nel casolare lì vicino, dove vive con parte della sua band, in una sorta di comune rock, consegna spontaneamente 26 grammi di cocaina che gli costano 22 giorni di prigione a Pesaro, di cui cinque in isolamento, con l’accusa di detenzione di cocaina e spaccio non a scopo di lucro - i soli a fargli visita saranno De André e Dori Ghezzi. Una volta uscito, dirà d’essere convinto, allora, che l’uso personale di stupefacenti non costituisse reato, mentre nel giugno 1985, a ridosso dell’uscita di Cosa succede in città, la sua posizione nel maxi-processo in questione verrà stralciata. Ma qualcosa, ormai, s’è rotto.

Siamo in una terza fase. Tra il 1980 al 1984, infatti, aveva stravolto lo stile iniziale, da cantautore, verso quello da rocker strafatto, abusando di droghe, non dormendo - l’ha raccontato lui - per giorni per l’effetto delle anfetamine e giocando, in sostanza, scorrettissimo. I risultati, in termini di fama, erano stati fenomenali: da artista conosciuto per lo più nelle balere della sua Emilia diventa una sorta di nemico pubblico dell’Italia dei primi anni Ottanta, due volte a Sanremo - con Vado al massimo e Vita spericolata, rispettivamente nel 1982 e nel 1983 - e pure vincitore del Festivalbar 1983 con Bollicine, idolo di una «generazione di sconvolti» che non ha più «santi né eroi» e che le famiglie di allora guardano terrorizzate, come modello negativo per i figli. Rossi è hardcore sul palco e nella vita, e la testimonianza migliore è il live Va bene, va bene così (1984), un milione di copie vendute con le registrazioni di concerti scapestrati (di continui inneggi alla cocaina, peraltro) alla periferia dell’impero, che contribuiscono a far capire all’Italia cosa siano gli show di Vasco - soprattutto per chi non ha il permesso dei genitori per andarci. È lì che nasce il mito.

Ma quel mondo è già al tramonto per insostenibilità. La prigione diventa un modo per riflettere su sé stessi, su quanto si stesse facendo male, sui come mettere un freno. E quindi Cosa succede in città, l’album del cambiamento, quello in cui cerca di rimettersi in sesto. Il pezzo d’apertura, la cavalcata rock Cosa c’è, riallaccia i fili, immaginando un incontro tra Rossi - che appunto, ritorna in città - e un italiano medio. C’è l’ironia à la Jannacci che aveva caratterizzato i lavori precedenti, per esempio quando l’interlocutore gli fa notare che «sei un bel fenomeno anche te, a farti prendere così». Ma c’è anche una consapevolezza nuova: «Quando tocchi il fondo, vieni su. Vieni fuori oppure non ci vieni più». E soprattutto, è una falsa partenza: il resto del disco lascia da parte l’hard rock in favore di un pop-rock più conformista rispetto agli anni Ottanta, con i sintetizzatori sempre più presenti tra i suoni della sua Steve Rogers Band. E i testi si trasformano: il sarcasmo fa posto alla delusione e soprattutto alla disillusione, evidente nella stessa Cosa succede in città, una sorta di manifesto del sospetto verso un’epoca in cui, a guardarsi intorno, l’Italia sembrava avere il vento in poppa - e in realtà, si sarebbe scoperto poi, si stava solo nascondendo la polvere sotto il tappeto. Gli unici episodi vecchio stampo, in termini di umorismo e sarcasmo, sono T’immagini - che avrebbe dovuto essere presentata a Sanremo 1984 - e Ti taglio la gola, comunque con le punte arrotondate rispetto a certi pezzi dello stesso Bollicine e in ogni caso parecchio ammorbiditi nei suoni.

Vince l’intimismo, allora. E vince, soprattutto, un cantautorato rock offeso, più guardingo e meno godereccio. Non è strano pensare a una Toffee come a una prova generale di Sally (1996), né a Cosa succede in città come a un’anticamera di C’è chi dice no, la canzone che nel 1987 darà il titolo al disco appena successivo, che consacrerà Rossi nella musica italiana grazie allo stile pessimista, cupo e critico che poi sarà il fulcro dei suoi anni Novanta. Perché, per quanto sembri un tradimento, il compromesso storico del 1985 fu in realtà un trionfo: per quanto Vasco non si gongolerà mai nell’immagine del rocker redento, anzi, quest’ammorbidimento gli aprirà la strada verso il grande pubblico, quello che prima di allora l’aveva sempre guardato con sospetto o paura e che invece ora comincerà a familiarizzarci. Ecco, al di là di tutto, in Cosa succede in città c’è il seme, soprattutto, del Vasco nazionalpopolare, dei San Siro, degli stadi. Non è poco.

LEGATO A “WE ARE THE CHAMPIONS” (RETE TRE) DEL 21.12.2025, ORE 09:00

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