Musica Blues

Zucchero: “Dentro ogni successo la mia malinconia”

In un documentario il cantautore italiano racconta per la prima volta la sua verità

  • 13 febbraio, 10:26
  • 20 febbraio, 08:29
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Di: Patrizio Ruviglioni

Zucchero è un rebus. La critica, soprattutto quella italiana, l’ha sempre snobbato, derubricato a fenomeno pop, senza perdonargli l’etichetta di bluesman che si era messo addosso da solo all’apice del successo, alla fine degli anni ottanta, convinta che non gli appartenesse, che l’Emilia non fosse il Mississippi e una via da qui al genere non esistesse. Resta che è l’unico italiano ad aver riscosso un certo tipo successo nel mondo, a livello di riconoscimenti: è amico personale o ha collaborato con gente come Sting, Eric Clapton, Joe Cocker e Miles Davis, è il primo occidentale a essersi esibito al Cremlino dopo la Caduta del Muro e ha tenuto il più grande live di uno straniero a Cuba sotto embargo, tra i tanti. Quando gliene chiedevano conto, si nascondeva: «Consideriamo poco quel che facciamo noi, e sovrastimiamo il lavoro degli altri, finendo per avere come paura di proporci», aveva detto in un’intervista al sito italiano Linkiesta nel 2016. In altre occasioni raccontava di stare evidentemente «simpatico» agli altri artisti.

Ora sembra non abbia più voglia di sminuirsi, perlomeno per il documentario Zucchero – Sugar Fornaciari uscito su Tim Vision, diretto da Valentina Zanella e Giangiacomo De Stefano. Dentro c’è la sua verità, sia per l’autobiografia (gli artisti di una volta, oltre a un sacco di aneddoti, hanno trascorsi interessanti non raccontati, perché all’epoca l’informazione funzionava diversamente e c’erano pochi personalismi) e sia per quello che ritiene essere lo spessore artistico. Intervengono gli amici del gotha internazionale, ma anche un Salmo che, dopo una cover della sua Diavolo in me, lo definisce «uno dei più grandi bluesman al mondo» e con cui, in maniera più o meno calcolata, si costruisce un ponte con le nuove generazioni – che Zucchero ha mancato, e sembra gli dispiaccia più del dovuto. Ma a parte questo, è un modo per dire «adesso parlo io», per fare il punto sugli equivoci e raccontare il sangue che dietro le canzoni.

E quindi ecco anche delle interviste più personali, concesse negli ultimi mesi. Il tema, già affrontato nel libro Il suono della domenica (2011), è la depressione dovuta al divorzio con la prima moglie, nel 1990, cioè nel momento di massima esposizione mediatica. «Ma io non me le godevo, anzi non avevo voglia di farle», ha detto. Ad Aldo Cazzullo e Pasquale Elia sul Corriere della Sera ha aggiunto dettagli sul rapporto con lei, molto tormentato già da metà anni ottanta: «Una notte mi disse: “Ti lascio, non ti amo più”. Ma non so se mi abbia mai amato davvero, di sicuro “ti amo” non me l’ha mai detto, e neanche “ti voglio bene”. Mai. E la mia presunzione era farla sorridere, renderla felice». E ancora: «Volevo farmi fuori. Stavo malissimo. Attacchi di panico fortissimi, cose che non auguro a nessuno». Al Messaggero ha spiegato di esserne uscito «con gli antidepressivi e costruendo il mio ranch di Pontremoli, un’oasi felice».

Raccontare la depressione, più che un modo per vendersi come dannato, serve a descrivere la vita dietro i pezzi, da Miserere a Senza una donna, ma non è tutto. Nello Zucchero che scopriamo a quasi settant’anni, dopo averlo avuto per una vita davanti, ci sono la gavetta («Per la pagnotta ho fatto di tutto», e poi i guai finanziari, le difficoltà di essere un’esordiente nella musica italiana con una famiglia già da mantenere: sempre al Corriere) e il legame prima reciso e poi ritrovato con l’Emilia, “incarnata” da sua nonna Diamante nell’omonima canzone, con testo di De Gregori. «Lo sradicamento da mia nonna Diamante mi ha fatto molto soffrire. Ancora adesso ho la sensazione di non sentirmi mai a casa da nessuna parte. Sono nato così con una parte malinconica. Forse per questo sono stato sempre attratto dal blues», ha confidato in occasione del lancio del documentario, in quello che in pieno stile suo è sembrata più una chiacchierata con amici che una serie di dichiarazioni da inserire in una grande operazione di rebranding. E infine il blues, la «musica della malinconia», che ha sempre rivendicato. In apertura ai concerti dell’anno scorso a Roma, usando la retorica del «molti mi chiedono...», ha specificato che «da me, come nel blues americano, convivono l’anima più triste e quella più da osteria. Questo genere è fatto così».

Tutto ciò sa di chiusura di un cerchio, e di un modo più o meno calcolato, sicuramente cercato, per far prendere sul serio il tutto: le canzoni più tristi perché si portano dietro la depressione, quelle allegre perché hanno origini nobili, la carriera in generale perché si porta dietro il sudore del lavoro – che non è mai scontato, finché non lo si racconta – e l’arte di arrangiarsi. Lo testimonia, tra gli altri, il racconto di come ha convinto Pavarotti a duettare in Miserere, che all’epoca causò problemi diplomatici perché un tenore così, di fatto, non si era mai prestato alla musica leggera: «Io preparo tre musicassette di Miserere, cantata da Bocelli. Era febbraio, c’era il camino acceso. Parliamo di cavalli, di tutto, ma non affrontiamo l’argomento. Verso le 4 tento il colpo, ma Pavarotti mi dice che non può. E io: questa canzone la puoi cantare solo tu; se non vuoi cantarla, io la brucio. E la butto nel caminetto. Luciano ci rimane malissimo: “Tu sei matto! E ora come fai a ricordarla?”. “Vedrai che me la ricordo...”».

I meriti che fanno di Zucchero un mezzo incompreso e un sottovalutato, specie in Italia, sono anche altri (la scoperta di Andrea Bocelli, per esempio), e magari dopo questo documentario ascenderà finalmente per lui al ruolo di venerato maestro – per ora, anche per una certa difficoltà d’indole a stare sul piedistallo, non ce l’ha fatta. Resta che se non altro ora si può mettere in prospettiva la sua musica: i due dischi della svolta, Blue’s (1987) e Oro, incenso e birra (1989), quasi cinque milioni di copie in due, restano, questi sì, album enormi e mai del tutto storicizzati, di cui adesso però si capisce la forza motrice («ora la mia ex moglie vorrebbe i diritti d’autore», scherza); lì ha i pezzi che valgono una carriera, ma sia la ballate tristi come Senza una donna, Hey man, Diamante, e sia i pezzi vitalistici, quasi sporchi e viziosi, tipo Diavolo in me, Il mare impetuoso al tramonto e Solo una sana e consapevole libidine, portano dentro qualcosa di rotto, un male profondo che lì fa essere malati e affascinanti allo stesso modo, nella gioia e nel dolore, nella ricerca del piacere e nella frustrazione.

Miserere, del 1992, paga invece più di tutti lo scotto della depressione, dove a parte il capolavoro della title-track il resto è quasi paralizzato. Da lì in poi, per un po’ gli riusciranno solo i lenti malinconici (Il volo, sempre per la ex moglie, e Così celeste, entrambe del 1995), prima di adagiarsi un po’, stare senz’latro meglio, e dare ragione a chi lo ritiene sopravvalutato. Ma forse la chiave era tutta all’inizio, in quelle canzoni dal successo commerciale enorme e che, nonostante questo, sono ancora un equivoco ancora da sciogliere per tanti: come quando si sta malissimo dentro, e nessuno intorno se ne accorge.

Zucchero e la sua malinconia

Un' ora per voi 21.01.2024, 14:00

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  • Zucchero – Sugar Fornaciari

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