Qualche anno fa mio marito e io ci siamo presi una strana influenza con la tosse. Era persistente, un po’ diversa dalle solite. Abbiamo scritto al nostro medico di base, che era lo stesso. A me è arrivata un’email: «Gentile signora, si prenda questo sciroppo alle erbe e si riguardi». A lui invece è arrivata la proposta di fare una visita in studio, a cui sono seguite le prescrizioni per esami di approfondimento, e medicinali specifici. Avevamo gli stessi sintomi. Anzi: i miei erano più forti. Eppure il trattamento è stato completamente diverso.
Lì per lì, ci abbiamo riso su. Io gli ho fatto una battuta su come la sua bellezza fosse irresistibile anche per medici prossimi alla pensione. All’epoca non conoscevo il gender pain gap. Possiamo tradurlo come “disparità di genere nel dolore”, anche se sarebbe più preciso dire “disparità di genere nel trattamento del dolore”, perché il “gap” non è tanto nel provare dolore, quanto nella risposta del sistema sanitario a quel dolore.
Medicina di genere: a che punto siamo in Svizzera
Alphaville 23.05.2025, 11:45
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Ci sono voluti alcuni anni e diverse incazzature perché capissi che esiste un bias sistemico che vede l’uomo come “standard” e la donna come la sua “variante emotiva”, anche quando si parla di salute. Parlare di gender pain gap significa smantellare secoli di pregiudizi e stereotipi di matrice patriarcale che hanno letteralmente messo a rischio la vita di metà della popolazione mondiale.
Per secoli, se non millenni, l’anatomia e la fisiologia sono state studiate su un modello standard: maschio, bianco, cisgender, di circa 70 chili. La medicina ha storicamente considerato la donna identica all’uomo, tranne che per gli organi sessuali e riproduttivi. Tutto il resto (cuore, sistema immunitario, cervello) veniva trattato come se fosse maschile. Ovviamente, non sono mai state considerate le persone intersex e persone trans e non binarie “AFAB” (assigned female at birth, cioè assegnate femmine alla nascita). Inoltre, fino agli anni ’90 , le donne in età fertile venivano escluse dai trial farmaceutici per “proteggere” potenziali feti e perché le fluttuazioni ormonali erano considerate “variabili di disturbo”. Soprattutto negli USA, ma la prassi è globale e rimane problematica tutt’oggi (vedi Hildrun Sundseth, Peggy Maguire and Kristin Semancik, Sex and Gender in Medicines Regulation, European Institute of Women’s Health, 2017). Il risultato? Molti farmaci sono pensati e dosati per metabolismi maschili, e non funzionano - o funzionano peggio - su quelli femminili.
A questo si aggiunge il “gaslighting medico”, quando vengono sminuiti i sintomi della persona paziente, facendola dubitare della propria percezione della realtà. Il dolore femminile non viene creduto, e viene psicologizzato. La cardiologa Bernadine Healy nel 1991 scrive l’articolo The Yentl Syndrome (“La sindrome di Yentl”), in cui denuncia il fatto che le donne venivano trattate seriamente per attacchi cardiaci solo se presentavano sintomi maschili (dolore al braccio sinistro, peso al petto). Ma le donne hanno spesso sintomi diversi (nausea, dolore alla mascella, stanchezza estrema), e venivano rimandate a casa. Questo problema esiste ancora: donne, persone trans e non binarie AFAB vengono ancora rimandate a casa. E spesso con diagnosi di “attacchi di panico” o similari.
Del resto, la storia della “pazzia” delle donne è antichissima. La parola “isteria” deriva dal greco hýstera, utero. Storicamente, ogni dolore inspiegabile nella donna veniva ricondotto al suo utero o alla sua psiche. Oggi non usiamo più la parola “isterica”, ma non andiamo molto lontano con “ansiosa”, “stressata”, “depressa” o “sensibile”.
Quando una donna esprime frustrazione per un dolore non diagnosticato, spesso la diagnosi si sposta dal sintomo fisico al giudizio caratteriale. Come nota Soraya Chemaly (La rabbia ti fa bella, HarperCollins, 2019), la società etichetta rapidamente come “isterica” o “pazza” una donna che manifesta il proprio disagio, perché culturalmente non le è concesso esprimere rabbia, ma solo tristezza o impotenza. Questo meccanismo permette al sistema medico di liquidare la sofferenza fisica come un difetto emotivo.
https://rsi.cue.rsi.ch/cultura/societa/%C2%ABNon-fare-l%E2%80%99isterica%C2%BB-alcune-riflessioni-sulla-rabbia-femminile--2136200.html
Spesso anche le donne e le persone AFAB con dolore cronico o malattie ancora poco conosciute, perché tipicamente femminili, come endometriosi o fibromialgia, non vengono credute, e il loro dolore viene minimizzato. Gli viene detto di fare yoga, meditare, rilassarsi e “prendersi cura di sé”, scaricando la responsabilità della salute sulla singola persona invece che sul sistema. Ma la cura non deve essere un lusso individuale: è una responsabilità collettiva. Il dolore non si risolve privatizzandolo, ma riconoscendolo come questione di salute pubblica. Citando Audre Lorde: «Avere cura di me stessa non è autoindulgenza, è autoconservazione, ed è un atto di guerra politica» in un sistema che svaluta determinati corpi rispetto ad altri (Sorella Outsider. Scritti politici, Meltemi 2022).
Sì, perché il gender pain gap si aggrava quando si interseca con altre forme di discriminazione, come il razzismo. Ci sono studi del 2016 che mostrano come una percentuale allarmante di persone specializzande in medicina creda ancora che le persone nere abbiano terminazioni nervose meno sensibili o una pelle più spessa, portando a una sistematica somministrazione inferiore di antidolorifici rispetto alle persone pazienti bianche (Kelly M. Hoffman, Sophie Trawalter, Jordan R. Axt, and M. Norman Oliver, Racial Bias in Pain Assessment and Treatment Recommendations, and False Beliefs About Biological Differences Between Blacks and Whites, in «PNAS», vol. 113, n. 16, 2016). Per le donne nere o che appartengono a minoranze etniche, il rischio di mortalità materna o di diagnosi tardive è esponenzialmente più alto (Donna L. Hoyert, Maternal Mortality Rates in the United States, 2022, National Center for Health Statistics, 2022).
Il gender pain gap non colpisce solo le donne cisgender (cioè quelle che si riconoscono con il sesso assegnato loro alla nascita). La medicina patologizza tutto ciò che non è conforme allo standard, rendendo l’accesso alla salute un percorso a ostacoli. Olivia Fiorilli e Márcia Leite mettono in luce come le persone trans, non binarie e di genere non conforme subiscono una doppia violenza: il loro corpo viene “patologizzato” a priori (Salute trans*: pratiche di cura contro la Cura, in Ecologie della cura. Prospettive transfemministe, a cura di Maddalena Fragnito e Miriam Tola, Orthotes, 2021). Invece di ricevere “cura” intesa come attenzione ai bisogni vitali, vengono sottoposte a una “Cura” biomedica normativa, dove il medico agisce come un guardiano che decide se e quando la loro sofferenza è legittima. «La patologizzazione produce un modello di accesso ai trattamenti di affermazione di genere basato sul gatekeeping. Questo significa che per accedere ai trattamenti di affermazione di genere, le persone trans* hanno bisogno dell’autorizzazione di un professionista della salute mentale».
Chiudere il divario di genere in medicina
RSI Info 31.08.2024, 18:00
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Ci sono molti studi e dati a supporto del gender pain gap nei campi più vari della medicina e della salute. Ne cito alcuni: in Italia il ritardo diagnostico medio dell’endometriosi è di circa 11 anni. Oltre un decennio in cui alle donne e alle persone che mestruano viene detto che «è normale che il ciclo faccia male» (AA. VV., “Better Late Than Never But Never Late Is Better”, Especially in Young Women. A Multicenter Italian Study on Diagnostic Delay for Symptomatic Endometriosis, in «Eur J Contracept Reprod Health Care», vol. 28, n. 1, 2023). In pronto soccorso, le donne aspettano in media più a lungo degli uomini (fino a 20-30 minuti in più per dolori addominali acuti) per ricevere analgesici (Mika Guzikevits, Tom Gordon-Hecker, David Rekhtman, Shoham Choshen-Hillel, Sex Bias in Pain Management Decisions, in “PNAS”, vol. 121, n. 33, 2024). Le persone assegnate femmine alla nascita hanno anche il doppio delle probabilità degli uomini di subire reazioni avverse ai farmaci, perché i dosaggi sono studiati sulle persone assegnate maschi alla nascita (Irving Zucker, Brian J. Prendergast, Sex Differences in Pharmacokinetics Predict Adverse Drug Reactions in Women, in «Biol Sex Differ.», vol. 11, n. 5, 2020)
Già parlare di questi temi anche in contesti non specialistici è un mezzo per il cambiamento. Chiediamo di andare verso una medicina personalizzata. Parliamo di “medicina di genere”, non intesa come “medicina per le donne”, ma come studio delle differenze biologiche, ormonali, cromosomiche, genetiche, socioculturali tra individui. Chiediamo che donne e persone trans, non binarie e di genere non conforme vengano incluse nei trial clinici. E pretendiamo che il personale sanitario ascolti davvero il dolore delle persone pazienti, a prescindere dal loro genere e dalle loro caratteristiche identitarie.
https://rsi.cue.rsi.ch/cultura/societa/Medicina-di-genere-e-neurodegenerazione--2856098.html
https://rsi.cue.rsi.ch/cultura/societa/Medicina-di-genere-come-colmare-le-disparit%C3%A0-in-ambito-sanitario--2203353.html





