Società

È un complimento, o mi stai oggettificando?

Inspiration porn: l’uso (discriminante) del disagio e della disabilità come elemento motivazionale

  • 1 ottobre, 17:35
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Di: Elena Panciera 

Qualche tempo fa, una conoscente ha ricondiviso su Instagram il video di un tale che si allenava in palestra, commentandolo con l’emoji con gli occhioni commossi. Il tipo in palestra non faceva nessun esercizio particolarmente acrobatico, nemmeno per me che con lo sport c’entro come la cioccolata sulla pastasciutta. Correva su un tapis roulant, e si spostava per allenarsi con un altro attrezzo. Alla fine, trovava sul suo asciugamano un biglietto anonimo: «Oggi non avevo voglia di allenarmi, ma poi ti ho visto e ho pensato che non avevo scuse. Grazie, sei stato la mia ispirazione».

Il mio racconto sembra surreale. In effetti io mi sono prima stranita. E dopo mi sono arrabbiata. Perché ho capito che la reazione spropositata della mia conoscente, e quella della misteriosa fonte del biglietto, non erano dovute all’allenamento, assolutamente ordinario, che il tipo faceva. Ma a una sua caratteristica: aveva una disabilità motoria.

E quindi, se io, che non ho una disabilità, faccio cyclette, non si gira anima viva, ma se la fa una persona disabile allora è eroica. Un’ispirazione. Un modello di vita.

Questo è un doppio standard. Quando trattiamo una persona in modo diverso da come tratteremmo ogni altra persona per una sua caratteristica – perché è donna, queer, nera, disabile – stiamo compiendo una discriminazione. Anche se è “benevola”, perché la trattiamo bene. Meglio di come tratteremmo ogni altra persona. Magari non ci sembra di fare nulla di male. Anzi, probabilmente crediamo di fare una cosa positiva: in fondo, nel biglietto c’era un complimento, no?

Ho scritto alla mia conoscente che avevo trovato disturbante la sua ricondivisione e la sua reazione commossa al video. «Perché mai? È sempre bello essere di ispirazione per qualcuno», ha risposto.

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E invece no, non è sempre bello. Lo è se si fa qualcosa di davvero significativo, di eccezionale. Se si vince un premio. Se si scrive un libro. Se si fa una scoperta scientifica, o si ottiene un brevetto. «Maria Ester si è diplomata. Giorgia fa ginnastica ritmica. Andrea fa il giocoliere. Federica dipinge. Cos’hanno in comune? Una disabilità», scrive Simone Riflesso (Premiati per essere un’ispirazione civica, 2021). «Qual è il loro merito? Semplicemente fare qualcosa, magari anche bene, ma quello che veramente importa, il merito, è che lo facciano nonostante le disabilità. In questo sono bravissimi, a superare le avversità. Possibilmente col sorriso, per lanciare meglio un messaggio di positività e speranza».

Mi sono resa conto che sono molto sensibile a questo tema, perché in un certo senso l’ho vissuto sulla mia pelle. Io non ho una disabilità, ma alcuni anni fa è morto mio marito. Avvenimento fuori dall’ordinario, in effetti, viste le nostre età (meno di 40 anni). Federico è scomparso in montagna. La vicenda ha avuto una certa risonanza mediatica, e per questo molte persone hanno iniziato a seguirmi sui social media. Insieme alle immancabili critiche, sono arrivati anche moltissimi complimenti, soprattutto per il mio “coraggio”. Lo metto tra virgolette, perché nella mia percezione non ho mai fatto nulla di straordinario: ho semplicemente raccontato il mio tentativo di tornare a una specie di normalità, dopo un evento improvviso e sconvolgente come è perdere il proprio compagno. Ma chi vive un lutto – o una disabilità, o una malattia – sa bene che non è coraggio. Semplicemente, non c’è alternativa.

All’inizio ringraziavo, imbarazzata. Ma percepivo qualcosa di stonato, in quei «coraggiosa», «forte», «eccezionale» che arrivavano da persone sconosciute per mie azioni assolutamente banali. Mi sono accorta che non mi vedevano come Elena, come persona intera, con desideri, ambizioni, paure, progetti, sogni, ma vedevano solo il mio lutto. Per quelle persone, ero il simbolo di una delle più grandi paure dell’essere umano – la perdita di una persona amata – e osservarmi nella mia quotidianità era diventato fonte d’ispirazione. «Se ce la fa lei, ad alzarsi dal letto la mattina, devo farcela anch’io». «Wow, parte per un viaggio in solitaria, che coraggio». «Sta continuando a vivere nonostante il lutto».

Questo mi ha fatto salire una rabbia assurda. Il motivo di questa rabbia ha trovato un nome quando ho scoperto il concetto di “inspiration porn”, coniato dall’attivista disabile Stella Young, e tradotto in italiano come “pornografia motivazionale”. «La pornografia motivazionale è un’immagine di una persona con una disabilità, spesso giovanissima, che fa qualcosa di assolutamente ordinario – come giocare, parlare, correre, fare un disegno o colpire una pallina da tennis – con una didascalia come “la tua scusa è invalida” o “prima di mollare, provaci”» (Stella Young, We’re not Here for Your Inspiration, in «ABC», 2012; traduzione mia). Possiamo quindi dire che l’inspiration porn è una delle tantissime forme che assume l’abilismo, ovvero la discriminazione nei confronti delle persone con disabilità.

Young sceglie di usare il termine “pornografia” provocatoriamente, accostandolo all’oggettificazione dei corpi che entrambe le pratiche attuerebbero.

Uso il condizionale, qui, perché non c’è unanimità nel definire la pornografia come strumento di oggettificazione dei corpi (femminili). Elisa Cuter, per esempio, si chiede se riappropriarsi della pornografia non possa essere un atto di liberazione dall’oppressione del genere: «L’esperienza sessuale oscena, e la sua rappresentazione, quella che permetta di uscire dalla soggettivazione imposta da secoli di subordinazione, non potrebbe essere riappropriata proprio in virtù della paradossale chance di riunificazione democratica e collettiva?» (Eros & Porno, nel blog della casa editrice WoM).

Ma torniamo all’inspiration porn. Quale che sia l’espressione che scegliamo per definire questa pratica, possiamo concordare sul fatto che riduca una categoria di persone a oggetto di ispirazione per un’altra. «Queste rappresentazioni [...] oggettificano le persone disabili rappresentandole in modo distorto, o comunque limitato, al solo fine di soddisfare lo sguardo delle persone non disabili e il loro bisogno di sentirsi motivate» (Ilaria Crippi, Lo spazio non è neutro, Tamu, 2023). «Lo scopo di queste immagini è di fornire ispirazione, motivazione affinché possiate guardarle e pensare: “Beh, per quanto difficile sia la mia vita potrebbe essere peggio. Potrei essere io quella persona”» (Young, Tante grazie, ma io non sono la vostra ispirazione, in «TED», 2014).

Ecco, io non ho una disabilità, ma così mi sono sentita per il mio lutto: distorta, svalutata, compatita. Non più vista come una persona intera, ma soltanto come una delle mie infinite caratteristiche: l’essere vedova.

La prossima volta che vi viene da dire a una persona che è “coraggiosa”, chiedetevi se è davvero un complimento, o è un modo per esorcizzare una delle vostre paure più grandi – la morte, la disabilità, la malattia – disumanizzando chi avete davanti.

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