Crisi abitativa

Chi ha diritto alla città?

Con tassi di sfitto ai minimi storici e affitti fuori scala, l’abitare diventa un privilegio. Le città svizzere rischiano di perdere coesione e pluralità, trasformandosi in vetrine esclusive senza comunità

  • Un'ora fa
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Di: Mat Cavadini 

La crisi abitativa svizzera non è un incidente urbanistico: è il sintomo di un modello politico che ha scelto di trattare la casa come un asset finanziario prima che come un diritto sociale. L’accesso all’alloggio sta diventando infatti il nuovo spartiacque di classe. Non è un caso se il tasso di sfitto nazionale è sceso allo 0,98%, e nelle grandi città si muove tra lo 0,2 e lo 0,5%: livelli che non indicano vitalità, ma soffocamento.

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La Svizzera è sempre stata orgogliosa della sua coesione sociale. Eppure oggi le sue città stanno diventando laboratori di una selezione silenziosa: chi può restare, chi deve spostarsi, chi non entrerà mai. Gli affitti medi a Zurigo e Ginevra superano facilmente i 2.500–3.000 franchi per un appartamento di tre locali. Non è solo un problema economico: è un meccanismo di esclusione che ridisegna la geografia del potere urbano. Le professioni essenziali – insegnanti, infermieri, operatori sociali, lavoratori dei servizi – vengono spinte verso periferie sempre più lontane. Le città restano, ma senza chi le fa funzionare.

La politica, intanto, procede a piccoli passi, come se la crisi fosse un fenomeno naturale e non il risultato di scelte precise. Per decenni si è lasciato che il mercato immobiliare diventasse terreno di caccia per fondi e investitori istituzionali, attratti da rendimenti sicuri e da un quadro normativo favorevole. La conseguenza è una produzione di alloggi sbilanciata verso il segmento alto, mentre la fascia intermedia – quella che tiene insieme la società – è stata abbandonata. La lentezza delle procedure edilizie e la scarsità di terreni edificabili non sono solo ostacoli tecnici: sono anche il frutto di resistenze politiche e locali che difendono lo status quo.

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Il fenomeno non è isolato. Berlino, Barcellona, Amsterdam, Parigi: tutta l’Europa sta vivendo la stessa tensione tra città come luoghi di vita e città come piattaforme di investimento. Ma la Svizzera ha una specificità: qui la stabilità abitativa è parte dell’identità nazionale. Quando questo equilibrio si rompe, non si incrina solo il mercato: si incrina la fiducia nel patto sociale.

La gentrificazione, spesso raccontata come un processo “naturale”, è in realtà un dispositivo sociale. Trasforma quartieri popolari in zone ad alto valore immobiliare, espellendo progressivamente chi non rientra nel nuovo profilo socioeconomico. A Zurigo Ovest, a Ginevra Les Grottes, a Losanna Flon, il copione è identico: prima arrivano gli investimenti, poi i nuovi residenti ad alto reddito, infine la normalizzazione dell’esclusione. Le città diventano più belle, più ordinate, più redditizie. Ma anche più omogenee, più sorvegliate, più diseguali.

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La domanda politica è inevitabile: chi ha diritto alla città? Se la risposta continua a essere “chi può permettersela”, allora la Svizzera rischia di trasformarsi in un Paese dove la coesione sociale è un ricordo e la mobilità sociale un mito. L’edilizia cooperativa offre un modello alternativo, ma senza una strategia nazionale che riconosca l’abitare come infrastruttura pubblica, non come merce, resterà una nicchia virtuosa.

La crisi abitativa non è solo una questione di metri quadrati: è una questione di democrazia. Una società che non garantisce spazi accessibili ai suoi cittadini non è una società inclusiva. È una società che si restringe, che si chiude, che si difende. La Svizzera ha ancora la possibilità di scegliere un’altra strada. Ma deve farlo ora, prima che le sue città diventino vetrine perfette e comunità vuote.

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