In Giappone hanno imparato a chiamarli hikikomori: ragazzi e adulti che scelgono di ritirarsi dal mondo, barricandosi in camera per mesi, talvolta anni. Non è una malattia nel senso classico del termine, ma una forma di rifiuto silenzioso verso una società percepita come troppo esigente, troppo competitiva, troppo veloce.
Le indagini più recenti del governo giapponese parlano di circa 1,5 milioni di persone in condizione di hikikomori, un dato cresciuto dopo la pandemia e distribuito ormai anche nelle fasce adulte (il cosiddetto “problema 80–50”: genitori anziani che assistono figli cinquantenni). Non è tanto una condizione clinica, quanto un fatto culturale che interroga il rapporto tra individuo e aspettative collettive (scuola, carriera, famiglia).
Il fenomeno ha dunque smesso di essere una “stranezza nipponica” per diventare un prisma che riflette le pressioni economiche, culturali e psichiche del nostro tempo.
I dati recenti sugli hikikomori italiani
Ad esempio, Si è tornato a parlarne recentemente in Italia a causa di un’analisi del CNR-IRPPS che fotografa un’impennata dei profili giovanili a elevato ritiro tra il 2019 e il 2022. Sono triplicati i cosiddetti “lupi solitari” (adolescenti che riducono drasticamente i contatti extra-scolastici) e raddoppiati i casi che assumono tratti compatibili con l’hikikomori dopo la pandemia, passando dal 5,6% del 2019 al 9,7% del 2022. Tra i fattori associati: iperconnessione, bullismo/cyberbullismo, scarsa fiducia negli adulti di riferimento e legami familiari fragili. È una vera e propria trasformazione delle abitudini relazionali, più che un “capriccio generazionale”.
Sul piano delle stime, l’anno scorso il ministro dell’Istruzione ha parlato di circa 50.000 adolescenti chiusi in casa da oltre sei mesi; le associazioni (come Hikikomori Italia) alzano la cifra a 100.000, considerando i casi fuori dai radar scolastici e sanitari. La forbice segnala la presenza di un “sommerso” consistente e la necessità di rilevazioni sistematiche. La preoccupazione pubblica è cresciuta di pari passo: mozioni parlamentari, inchieste televisive, tavoli tecnici e proposte di presa in carico multidisciplinare hanno riportato l’attenzione su scuola, servizi territoriali e famiglie.
La situazione in Svizzera
E in Svizzera? Il fenomeno è meno misurato, ma non per questo meno reale.
Anche alle nostre latitudini questa realtà è un problema sommerso, spesso nascosto dietro l’efficienza dei sistemi scolastici. Il ritiro sociale prolungato è riconosciuto dai professionisti, pur restando poco documentato nelle statistiche nazionali. Le testimonianze di educatori e psicologi raccontano di giovani che non vogliono più confrontarsi con l’esterno, che rifiutano la presenza fisica degli altri, che scelgono la sicurezza della propria stanza come rifugio.
https://rsi.cue.rsi.ch/info/dialogo/L%E2%80%99assenteismo-da-scuola-non-%C3%A8-semplicemente-%E2%80%9Cbigiare%E2%80%9D--3039278.html
In Ticino, tra il 2023 e il 2024, su quasi 12.000 iscritti alle scuole medie ben 385 ragazzi hanno accumulato almeno 200 ore di assenze — prima della pandemia erano appena 67 — e 95 ne hanno collezionate oltre 400, contro i soli 11 rilevati nel 2018–2019 . Dietro questi numeri ci sono storie di ansia da prestazione, di fughe, di richieste di aiuto che restano perlopiù invisibili, e che avrebbero bisogno di una risposta prossima, personalizzata e capace di coinvolgere la famiglia.
Centri socioterapeutici come l’Arco di Riva San Vitale — unica struttura residenziale di questo tipo nel nostro cantone — lavorano con ragazzi tra i 15 e i 18 anni che hanno smesso di frequentare la scuola e di vedere gli amici. Arco, che offre programmi individuali annuali per adolescenti in forte sofferenza evolutiva, nel 2025 ha annunciato l’ampliamento degli spazi per rispondere meglio alla domanda crescente. Un’ulteriore prova del fatto che non siamo di fronte a un’emergenza passeggera, ma a una trasformazione culturale che ci attraversa.
Gli hikikomori ci obbligano a fare i conti con un paradosso: mai così connessi, mai così soli. È una solitudine che mette in crisi l’idea stessa di comunità.
Hikikomori: chi sono?
RSI Edu 10.05.2023, 15:00
Cosa fare, allora?
In primis la scuola dovrebbe stare vicina ai ragazzi in difficoltà, non solo come luogo di istruzione, ma spazio in cui intercettare i segnali del ritiro e costruire reti di fiducia. Anche le famiglie non andrebbero lasciate sole, ma accompagnate con sostegni psicologici e pedagogici, soprattutto per i genitori, che troppo spesso vivono il fenomeno come una colpa individuale. Sarebbe inoltre fondamentale mettere in campo politiche culturali e sociali come campagne di sensibilizzazione, laboratori artistici, sport e attività comunitarie pensati come ponti reali per chi si è isolato. Non c’è cura senza un lavoro collettivo sulla qualità dei legami.
Combattere questa triste deriva di auto-reclusione diventa una sfida culturale che chiama in causa l’intera società, pertanto la risposta non può che essere collettiva: ricostruire legami, restituire spazi di fiducia, creare luoghi dove l’altro non sia vissuto come una minaccia.
In fondo non basta chiedergli di uscire dalla stanza: serve che qualcun altro venga ad aprire la porta.

Giovani isolati: l'hikikomori preoccupa
Il Quotidiano 22.05.2025, 19:00