Non c’è bisogno di bombe per distruggere un popolo: basta il corpo delle sue donne. È questa la verità brutale che emerge dal reportage di Cinzia Canneri, «Il corpo delle donne come campo di battaglia», premiato al World Press Photo 2023. Un titolo che non è metafora, ma cronaca: in Tigray e in Eritrea la guerra ha trasformato l’utero in trincea, la violenza sessuale in arma di sterminio, la maternità in bersaglio politico.
Un lavoro costruito negli anni, intrecciando relazioni profonde con comunità tigrine ed eritree. Canneri, al microfono di Sabrina Pisu in Laser, racconta: «I corpi singoli delle donne che ho incontrato sono corpi feriti, ma i corpi in gruppo delle donne, i corpi feriti che si uniscono, diventano dei corpi che rivendicano giustizia».
Corno d’Africa: la guerra sul corpo delle donne
Laser 24.11.2025, 09:00
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Il progetto, nato per documentare la migrazione delle donne eritree, si è ampliato con lo scoppio della guerra in Tigray nel 2020. Una guerra segnata da atrocità: «Storie terribili di violenze inaudite… stupri di gruppo, oggetti inseriti nell’utero delle donne, sassi, chiodi, persino biglietti con scritte di genocidio», denuncia la fotografa. L’esercito eritreo ha usato la violenza sessuale come punizione politica e come strumento di eliminazione etnica. «I loro corpi sono davvero diventati dei campi di battaglia».
Eppure, da quei corpi feriti nasce resistenza. Donne che si uniscono, censiscono le violenze, chiedono giustizia. Donne abbandonate dalle famiglie che si sostengono a vicenda, creando nuove possibilità di vita.
Questa storia si intreccia con la diaspora eritrea, descritta da Siid Negash, attivista eritreo, portavoce della Ong “Eritrea Democratica”, che combatte contro la violazione dei diritti umani in Eritrea: centinaia di migliaia di persone fuggite in trent’anni da un regime che impone detenzioni arbitrarie e un servizio militare a tempo indeterminato. Negash, scappato a 19 anni, racconta le diverse ondate migratorie: dalla liberazione dall’Etiopia, all’indipendenza del 1993, fino alla fuga dei giovani dal servizio militare infinito.
Molte sono donne con figli, spinte dalla disperazione: «Vedono una volta all’anno il marito, che manda pochissimi soldi, uno schiavo diciamo… condividono stanze con altre famiglie e decidono di uscire, di cambiare vita anche mettendo a rischio i bambini piccoli». Viaggi estenuanti attraverso deserti e prigioni, che lasciano identità «frantumate»: «Reggono per tutto il viaggio. Però quando arrivano in un paese dove c’è calma, i traumi escono».
La violenza non si è fermata con la fine ufficiale del conflitto. Un dossier di Physicians for Human Rights, dal titolo “Non sarai più in grado di partorire”, documenta sterilizzazioni forzate, mutilazioni genitali, torture. L’attivista etiope Meseret Hadush, fondatrice dell’Ong Hiwyet, denuncia: «Se non sono uccise, assistono alla morte dei familiari, vedono la loro casa distrutta. Ci sono rapimenti e violenze sessuali diffuse. C’è poco o quasi nessun supporto medico».
Hadush parla di stupro come arma di guerra, con oggetti inseriti nell’utero «per causare danni duraturi. È una forma di pulizia etnica». Le sopravvissute ricordano frasi agghiaccianti: «Il vostro sangue è stato purificato dalle forze etiopi amare ed eritree».
La mancanza di giustizia e di supporto medico e psicologico rende queste donne ancora più vulnerabili. «La violenza di genere è tuttora in corso», afferma Hadush. La sua ONG si scontra con ostacoli enormi: istituzioni indifferenti, assenza di canali legali sicuri, scarsa volontà politica, carenza di risorse.
Eppure, nonostante tutto, la lotta continua. «Sono nata e cresciuta in Tigray, dove ho visto come norme culturali, conflitti e povertà abbiano privato le donne di dignità e sicurezza», racconta Hadush. «Sono stata testimone oculare della sofferenza e dell’abbandono di chi sopravvive. Questo mi ha spinta ad agire».
La narrazione del regime eritreo tenta di ridurre i rifugiati a “migranti economici”, ma la realtà è fatta di corpi violati e vite spezzate. «Il regime vuol dimostrare che non sono asilanti, ma falsi rifugiati», denuncia Negash.
Cinzia Canneri conclude con un monito: «Io non amo molto il termine resilienza… La resilienza è anche resistenza, è fatta di emozioni diverse, dove il dolore permane ma permane anche la capacità di andare avanti».
Sono donne che, nonostante la guerra sia passata sui loro corpi, continuano a lottare. Donne che rivendicano dignità e futuro. La loro storia è testimonianza della forza dello spirito umano e un appello urgente contro l’impunità.




