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Inside di Bo Burnham è lo special comico di questa generazione

Perché lo spettacolo nato durante il lockdown è ancora oggi il prodotto più significativo e persistente della comicità americana, oltre la stand up comedy e oltre la parodia musicale

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Bo Burnham

Bo Burnham

  • IMAGO / ZUMA Press Wire
Di: Alessio Von Flüe 

Nel maggio del 2021, quando è uscito Inside di Bo Burnham, ero sul divano. Non è difficile per me ricordarlo: in quel periodo ero sempre sul divano. Vi evito i calcoli: no, eravamo usciti dal lockdown; sì, c’erano ancora diverse misure da mettere in pratica e in alcuni ambiti il lavoro in presenza era limitato; no, non era questo il motivo della mia fedeltà alla federa blu su cui era impressa la forma della parte posteriore del mio corpo.

Il motivo per cui ero sul divano era che mi ero rotto una spalla. In realtà me l’ero rotta mesi prima, una frattura semplice che doveva guarire in quattro settimane. Ma ci sono state delle complicazioni – che di solito, così mi ha detto il medico, colpiscono le donne sulla cinquantina e non gli uomini trentenni – e io mi sono ritrovato in un tunnel di infiltrazioni di cortisone e sedute di fisioterapia che sembravano sessioni medievali di tortura. Insomma, non stavo una favola in quel periodo e, soprattutto, passavo un sacco di tempo sul divano. Ma in fondo, per motivi che conosciamo tutti, non era nemmeno così atipico, all’epoca.

Ricordo però che quando ho visto il video promozionale di Inside ero confuso. Il suo autore, Bo Burnham, era conosciuto soprattutto per i suoi spettacoli comici one man show in cui spesso suona il pianoforte per accompagnare il canto dal vivo; ed erano circa cinque anni che non rilasciava un nuovo spettacolo, cioè da quando aveva cominciato a soffrire di attacchi di panico sul palco. Cosa poteva aver prodotto in un momento in cui l’industria era ferma a causa della situazione pandemica? La risposta era più semplice del previsto: aveva realizzato uno special interamente registrato in casa, proprio perché l’industria era ferma.

Ora, i prodotti che toccano quel tema di solito mi danno sui nervi. Ancora oggi, a qualche anno di distanza. Credo sia per una sorta di indigestione: aver vissuto (come tutti) quel periodo mi ha portato a voler evitare di tornarci con la mente – non perché io provi una sofferenza particolare, per pura saturazione. Però con Bo Burnham avevo un rapporto particolare.
Apro una piccola parentesi, prometto che è l’ultima. La comicità musicale mi è sempre piaciuta. Credo che, in Europa, culturalmente abbiamo una tradizione ricca in quest’ambito, e siamo più aperti a questa forma d’arte rispetto agli statunitensi. È forse il risvolto della medaglia di non aver vissuto l’imposizione della Stand-Up Comedy sugli altri generi: la nostra tradizione comica implementa spesso l’uso di musica. Si esprimevano in versi e su musica i giullari, il cabaret ne ha sempre previsto un ampio uso così come gli spettacoli di varietà.

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Certo, anche gli Stati Uniti hanno la loro tradizione comico-musicale, con il vaudeville, l’umorismo nei musical di Broadway e la parodia musicale mainstream di Weird Al Yankovic. Sembra però sempre essere uno dei tanti sottogeneri della commedia, più che una forma quasi istituzionalizzata di intrattenimento con una tradizione precisa alle spalle, come in molti paesi europei. È sicuramente una semplificazione, la realtà ha molte più sfumature, ma si ha ancora la sensazione che la comicità musicale negli USA sia percepita ancora come un hack, un espediente per nascondere dei limiti come comico.
Lo stesso Bo Burnham se ne era lamentato in diversi momenti dei suoi spettacoli precedenti, anche perché presentandosi come Stand-Up comedian attirava i confronti con le forme più tradizionali del genere. Insomma, il suo era un prodotto che cercava di tastare i limiti della Stand-Up, unendo alla comicità la musica, la poesia e forme di sketch spesso quasi teatrali.

Il punto che però mi legava di più all’artista, era il fatto che ne avevo visto l’evoluzione quasi dall’inizio. Bo Burnham è stato uno dei primi comici a emergere dall’onda di YouTube, quando a 16 anni ha pubblicato un video registrato nella sua stanza, in cui cantava accompagnandosi con una tastiera. La canzone raccontava in maniera ironica di come la sua intera famiglia pensasse che fosse gay. Era il 2006 e il suo era, come avrebbe ammesso anche lui in seguito, un umorismo adolescenziale: non particolarmente profondo né attento alle varie sensibilità. Ma ero adolescente anche io, mi aveva fatto ridere e aveva impresso nella mia memoria il viso di quel ragazzo magro, alto e con un taglio di capelli alla Justin Bieber.

Qualche anno dopo, nel 2010, Burnham pubblica Art is dead, che segna un punto di svolta nel modo in cui vedo il suo lavoro. «Questa canzone non è per niente divertente, ma mi aiuta a dormire la notte» dice il ragazzo ormai ventenne, poi comincia a cantare una canzone che ha come tema l’industria dell’intrattenimento e il suo lavoro di artista. Io resto folgorato – non tanto dalle le sue abilità canore o strumentali, quanto dal grado di sincerità dell’esibizione. Bo Burnham non fa solo ridere, ha qualcosa da dire.

Nel corso degli anni i momenti alla Art is dead si moltiplicheranno nei suoi spettacoli, le risate saranno sempre più legate a dei momenti di sincerità. A volte di meta-sincerità, come quando, durante il suo speciale Make Happy, ricorda al pubblico che è tutto irrimediabilmente finto nel suo show. I temi che diventeranno leitmotiv della sua produzione sono l’industria dell’intrattenimento e internet. «Dicono di parlare di ciò che conosci: sono un performer da quando ho sedici anni, di che altro potrei parlare?» chiede al pubblico, sempre durante lo stesso special.

Nel 2016 però sparisce dalle scene. In diverse interviste dirà di aver cominciato a soffrire di attacchi di panico quando si trovava sul palco. Si occupa di altro, lavora a un suo film, Eight Grade, come regista e sceneggiatore. Sembra allontanarsi dal mondo della comicità.

Insomma, Bo Burnham è un artista che ho visto crescere, sviluppare una sua poetica, maturare.
Lo confesso subito: non riesco a essere imparziale parlando di Inside. È un’opera che mi ha colpito (forte) in un periodo della mia vita in cui i temi che tratta erano un nervo scoperto.

Si svolge tutto in un anno, dentro una Accessory Dwelling Unit, una sorta di appartamento secondario che spesso accompagna le case di proprietà negli Stati Uniti. Il periodo è quello del lockdown, anche se nel corso dello special non viene mai nominato esplicitamente. Burnham si filma in prima persona – gestisce le riprese, le luci, la musica, il montaggio. I toni appaiono fin da subito divertenti ed estremamente cupi allo stesso tempo. Piccoli scorci che documentano il processo creativo si alternano con sketch parodici sulle reaction online, allo streaming su Twitch e le recensioni di videogiochi immaginari. Momenti di ilarità lasciano spazio a colpi di frusta emotivi che difficilmente lasciano indifferenti. E poi c’è il vero fulcro dello special: le canzoni.
Rispetto alle produzioni precedenti, la musica di Burnham nello special è molto più curata. Questo è sicuramente dovuto anche alla natura stessa dello special, che può contare su un importante lavoro di postproduzione.
Le canzoni sono varie sia a livello musicale che tematico, passando dalla parodia alla satira in modo naturale. Anche quelle apparentemente più «leggere» come White Woman’s Instagram – il titolo è esplicativo – nascondono delle riflessioni più profonde. Ok, è divertente prendere in giro la «tipica ragazza bianca su Instagram», ma che persona c’è dietro a quel profilo? E il suo bisogno di essere vista a cosa potrebbe essere dovuto?

Burnham non manca di analizzare la sua stessa produzione: in Comedy si chiede come può portare un contributo all’umanità, ma «venendo pagato e rimanendo al centro dell’attenzione». La risposta è ovviamente la comicità: «Healing the world with comedy. Making a literal difference, metaphorically» canta con un’evidente buona dose di sarcasmo. In Problematic rivaluta le sue prime canzoni e come potessero essere offensive: «I started doing comedy when I was just a sheltered kid. I wrote offensive shit and I said it. Father, please forgive me, for I did not realize what I did. Or that I’d live to regret it». Nel verso successivo metterà in dubbio quanto detto, con la costante autoanalisi che permea tutto lo special: «I wanna show you how I’m growing as a person, but first. I feel I must address the lyrics from the previous verse. I tried to hide behind my childhood and that’s not okay. My actions are my own, I won’t explain them away».

Se di primo acchito lo show sembra comunque essere incentrato sulla condizione dovuta al lockdown, presto si comincia a capire che Inside non rappresenta solo l’essere chiusi dentro uno spazio fisico. Il dentro di cui parla Burnham è ancora più intimo – è la sensazione di essere rinchiusi dentro di sé, lo sgretolarsi dei rapporti, la solitudine. Burnham punta – nemmeno troppo velatamente – il dito contro internet per questa situazione, soprattutto in Welcome to the Internet, mettendosi nei panni di una sorta di direttore del circo (che rappresenta il web stesso) e parla ai bambini: «Could I interest you in everything? All of the time? A little bit of everything all of the time. Apathy’s a tragedy and boredom is a crime. Anything and everything all of the time».
I riferimenti a internet sono costanti, come è costante il parallelismo tra la sua situazione, essere rinchiuso in un appartamento a produrre contenuti, e la sua infanzia, con il successo arrivato da YouTube per contenuti realizzati in una stanza. Il rapporto tra i due momenti della sua vita è esplicito in Look Who’s Inside Again: «I was a kid who was stuck in his room. There isn’t much more to say about it. When you’re a kid and you’re stuck in your room. You’ll do any old shit to get out of it».

Forse però il tema più presente è quello della salute mentale. Durante tutta l’ora dello special abbiamo l’impressione di assistere a un lento e inesorabile deteriorarsi delle facoltà mentali di Burnham. Più l’appartamento si riempie di strumentazione, più gli effetti e le luci diventano presenti, più l’autore e protagonista dell’opera sembra perdere il contatto con la realtà ed essere divorato dalla sua stessa creazione. Il climax di questa situazione si raggiunge in All Eyes on Me, in cui emerge il racconto dei suoi cinque anni di silenzio dopo l’ultimo show e il suo tentativo di migliorare la sua salute mentale.

È difficile riassumere tutto quello che è stato condensato da Bo Burnham lungo tutta l’ora di Inside. Il prodotto finale è uno speciale comico che è difficile da incasellare, che sembra essere in conflitto con la sua stessa definizione. In cui si ride, certo, ma ci si pone anche grosse domande e spesso si viene trasportati in dimensioni dal forte impatto emotivo. Uno show che deve essere visto e vissuto, anche solo per il piacere di stupirsi di cosa sia riuscito a fare un uomo armato di creatività e rinchiuso in una stanza.
Quello che emerge da tutto lo speciale è la costante lotta interna di un artista che da anni si chiede perché senta il bisogno della performance. Perché debba lottare con sé stesso e cercare di migliorare per tornare a essere al centro dell’attenzione. E chiedendoselo, in fondo, lo sta chiedendo anche a noi.

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