Guardando, da adulti o da bambini, Lilli e il Vagabondo, sarà capitato ad alcuni di voi di emozionarsi quando al cane protagonista del cartone animato viene messo il consueto collarino e l’immancabile targhetta ad indicare che non è più un randagio. Per la sottoscritta, rivedere quel cane così libero e indipendente, scaltro ed anche un po’ sprezzante nei confronti degli ambigui umani, ridursi infine ad essere agghindato come la viziatella di cui si era invaghito, è stato – per così dire – piuttosto deludente. Se si leggesse poi il libro da cui è tratto il classico della Disney (Lady and the Tramp. The story of two dogs di Ward Greene) si sarebbe più indulgenti nei confronti della “ricca” cocker spaniel, ma si rimarrebbe ancor più stupiti del cambiamento dello “squattrinato” meticcio. Lady-Lilli gode sì di tutti gli agi della “borghesia” (viaggi in carrozza e sedute di manicure compresi), ma paiono più una sciocca vanteria dei suoi “genitori”, le danno noia ben presto e crede ben poco alla nobiltà di sangue («penso che sia molto più importante quello che fai tu piuttosto che quello che hanno fatto i tuoi antenati» dice ad un altezzoso segugio). Il Vagabondo-Biagio, con la stessa velocità, rinnega invece i suoi “ideali”, in nome di una tranquilla e sicura vita domestica. Lui, che un attimo prima era sbigottito dal fatto che la sua innamorata volesse tornare dalla famiglia che la aveva costretta ad indossare una museruola, poche righe più avanti diventa un ozioso cane qualunque che non esce dal cortile di casa.
«La vista, l’olfatto, il gusto, il parlare vengono controllati o soffocati dalla museruola. Inasprisce lo spirito, avvelena il sangue e spezza il cuore. La museruola è il campo di prigionia, la camera di tortura dei cani»: in questi toni, insolitamente seri, si parla di quel diabolico bavaglio, probabile allusione all’opprimente censura. Il libro di Greene, pubblicato nel 1953, offre pure un perfetto esempio – a misura di bambino – di quella che Hannah Arendt chiamerà “la banalità dei male”. Il Vagabondo, per un’incomprensione, viene condannato a morte, ingabbiato e scortato da degli uomini che portano delle maschere antigas; l’autista, che lo avrebbero condotto in quell’«edificio grigio e ostile dove nessun animale poteva passare senza rabbrividire» ritiene ingiusta la condanna e afferma: «è un vero peccato giustiziare un cane del genere, ma ovviamente devo fare il mio dovere». La vicenda, come si è detto, avrà il suo lieto fine: il randagio diventa un “damerino” nella casa della sua “principessa”, da cui, si lascia intendere, difficilmente uscirà. A differenza del suo amico castoro, incontrato in una delle passate fughe notturne, che usciva ed entrava dalla gabbia dello zoo in cui fingeva di essere rinchiuso, per avere un comodo giaciglio e un pasto a domicilio.
A vendersi per un tozzo di pane, o meglio per uno squisito salame Cracovia, è un altro celebre animale: il russo Šarik, uscito dalla penna di Michail Bulgàkov (Cuore di cane, 1925). Il gracile ma tenace senzatetto, che pur dagli uomini aveva ricevuto più di una bastonata, si lascia incantare da quello che crede un disinteressato benefattore ma si rivelerà il suo aguzzino. Se un compagno «proletario», gli aveva rovesciato addosso dell’acqua bollente, per aver rovistato nella pattumiera, quell’uomo, scambiato per un gran «signore», un eminente «intellettuale», gli procurerà ben più di una ferita al fianco. Filìpp Filìppovič, questo il suo nome, avvicina l’irsuto cane proprio perché è un vagabondo: «Non porti il collare, eh? Splendido. Ho bisogno proprio di un cane come te. Vieni con me». Il poveraccio intuisce che è finito in un luogo sinistro – «Al diavolo loro e il loro salame! Mi hanno attirato in un ospedale per cani! Magari mi obbligheranno a bere olio di ricino» – ma una carezza, un boccone e un «largo collare luccicante» lo convinceranno, dopo un’iniziale resistenza. In principio brucia di vergogna, ad andare a spasso al guinzaglio, ma poi «capì perfettamente cosa significhi un collare nella vita»: l’invidia degli altri cani – «Canaglia da signori!», «Leccapiatti da due soldi», gli abbaiano al suo passaggio – e il rispetto degli uomini; ne deduce così che «un collare è come una borsa per documenti». Questo basterà, ogniqualvolta verrà rinchiuso, ad allontanare il ricordo di quando scorrazzava con gli altri liberi cani randagi: «No, macché libertà, da qui non me ne andrò. Perché mentire? Ormai mi sono abituato. Sono un cane da signori, sono un intellettuale; ho provato la dolce vita. E poi cos’è mai la libertà? Fumo, miraggio, finzione... vaneggiamenti di questi sciagurati democratici... ». Peccato che il pernottamento in casa Filìppovič prevedeva l’asportazione dei suoi testicoli e la trapanazione del suo cranio, onde istallargli le ghiandole genitali e l’ipofisi di un uomo, e non di un individuo qualunque, un volgare ladro ubriacone di cui erediterà tutti i caratteri. Creato l’«homunculus» questa specie di Dr. Frankenstein, non appena «l’uomo col cuore di cane» darà troppi problemi, lo distruggerà, facendolo regredire allo stato iniziale. Non più su due zampe, ma raggomitolato ai piedi del padrone, penserà: «Sono stato molto, molto fortunato... È vero che m’hanno tagliuzzato la testa in lungo e in largo e chissà perché... ma passerà».
Di cani bonaccioni e “tagliuzzati” ne aveva pure parlato il poeta romano Trilussa, che in Er gatto e er cane (1901) contrappone un astuto e freddo felino, che si vanta di non portare «rispetto nemmanco ar padrone», a un fedele e servile «Barbone», disposto ad accettare tutti i «belli capricci» dell’uomo: «tu che lo lecchi te becchi le botte: / te mena, te sfotte, te mette in catena / cor muso rinchiuso e un cerchio col bollo / sull’osso del collo. / Seconno la moda te taja li ricci / te spunta la coda… ». Una favoletta che ispirò non poche poesie di Arturo Besozzi (se il nome vi giunge nuovo è perché fu il mio bisnonno): un anarchico comasco, un «vagabondo» che «visse ignorando le leggi degli uomini», come scrisse nella sua epigrafe, un uomo che odiava le «bestie» e amava gli «animali», come recitava la scritta che accoglieva i clienti della sua casa-osteria in cima al monte Bisbino. Ebbene, lui che la fame la aveva patita (per la guerra e per le sue opinioni politiche) e che pure aveva conosciuto l’opportunismo degli uomini (gli stessi che lo evitavano come un lebbroso, quando faceva discorsi anti-fascisti, a regime concluso, erano diventati improvvisamente comunisti) contrapponeva nelle sue poesie due tipi di cani. Il cane civilizzato, panciuto, pulito, che scodinzola con le sue orecchie mozzate alla «civiltà del padrone», quella «del collare e del bastone» e Il cane anarchico, che vive in campagna e sta lontano dalla città, perché «là c’è la camera a gas: “prodotto della civiltà”» e si definisce un «Signor cane», giacché lui non lesina a pagare il prezzo della libertà: meglio la fame, che l’osso del padrone. «La libertà l’è piena de sacrifizi, / de caratar, de orgôi», scriveva ancora nella poesia in dialetto Cungres de can, ma è anche vero che «dumà cun quest ta salvaree / la tua cua e i tò urecc». E anca el cervèll!, come insegna la storia dell’ingenuo Šarik e dei tanti bipedi arrivisti privi di ideali.
Cungres de can
Cari i me can
fin che esist la cadena
parlà de prugres e libertà
var minga la pena.
Capisi che par certi can
la cadena l’è necesaria,
senza de quela sbandan,
san minga duve andà:
senza padrun l’è dificil mangià.
Umiliaziun de tût i culur,
una quai pesciada la manca minga,
te devat sempar di de sì,
quant al dorma “Lû”
l’è pruibii anca buià:
questa ciamala libertà!
“Taas, dimal minga a mì
che sun un can luff
(che in verità sun dumà un can).
A fûria de sentì: ciapa de chi
ciapa de là,
ho imparaa a cagnà”.
Mi che va parli de libertà
sun un barbun,
però û mai vurû un padrun.
Natûralment i can de caratar
mangian minga tut i dì,
la cucia l’han mai sugnada
e andrà a finì
che muriran in una quai cûneta
che del rest in minga tant luntan
de duva in vegnu al mund.
Vialtar can de padrun
si vegnu al mund con la cûna prunta,
ul latt cald.
Dopu l’è vegnu la cucia, la sûpa calda, l’oss:
ul culanel e la cadena in vegnu dopu.
A tanti can, ul padrun, al gà taiaa la cua,
a certi anca i urecc.
(sa pò minga avec tutto gratis)
Tu devi collaborare alla tua schiavitù!
La libertà l’è piena de sacrifizi,
de carater, de orgôi.
Dumà cun quest ta salvaree
La tua cua e i tò urecc.
Le vacanze con il cane
La consulenza 06.06.2024, 12:50