Nel cuore del conflitto sudanese, tra città assediate e milioni di sfollati, scorre un fiume silenzioso ma potentissimo: l’oro. Un metallo che, anziché brillare di speranza, alimenta la guerra. E lungo questo fiume, la Svizzera si trova, volente o nolente, in posizione centrale.
Il Sudan è oggi uno dei principali produttori d’oro dell’Africa. Ma gran parte di questo oro non passa per canali ufficiali. Secondo SwissAid, almeno 400 tonnellate sono state contrabbandate tra il 2012 e il 2024. La metà è finita a Dubai, hub globale del metallo prezioso. «Dubai continua a giocare un ruolo centrale nel conflitto attuale, attraverso l’acquisto di oro che proviene da entrambe le parti in guerra», spiega Martina Carlino in Alphaville.
L’oro svizzero proviene dal Sudan?
Alphaville 06.11.2025, 12:05
Contenuto audio
Il meccanismo è semplice e perverso: le Forze di Supporto Rapido (RSF), milizia coinvolta nel conflitto, controllano molte miniere e aziende aurifere. Vendono l’oro agli Emirati, che in cambio forniscono supporto militare. Da Dubai, l’oro prende poi la via dei mercati internazionali, Svizzera inclusa.
E qui entra in gioco il secondo snodo della catena. La Svizzera raffina ogni anno circa 2400 tonnellate d’oro, pari al 34% della produzione mondiale. «Gli Emirati Arabi Uniti sono il secondo paese fra quelli da cui la Svizzera importa maggiormente», osserva il professor Edoardo Beretta (professore di Macroeconomia internazionale all’USI di Lugano). Nel 2023, le importazioni elvetiche da Dubai hanno superato i 10 miliardi di franchi. E sono in crescita.
Ma da dove viene davvero quell’oro? È qui che il sistema mostra tutte le sue crepe. «La catena di approvvigionamento è spesso di difficile tracciabilità e in alcuni casi è del tutto oscura», denuncia Martina Carlino. Una volta raffinato, l’oro perde ogni identità. Potrebbe provenire da miniere illegali, da vecchi gioielli, o da lingotti nazisti. Nessuno può dirlo con certezza.
Il problema si aggrava con le triangolazioni. Le raffinerie, anziché acquistare direttamente dai paesi produttori, si riforniscono da trading hubs come Dubai o Hong Kong. Così, un lingotto sudanese raffinato negli Emirati diventa ufficialmente “emiratino”. «La trasparenza è totalmente assente», ammette Carlino.
Un caso emblematico è quello della raffineria Valcambi, la più grande in Svizzera. Un’inchiesta di Global Witness ha rivelato che importava oro da Kaloti, raffineria emiratina legata alla Banca centrale sudanese. Quest’ultima acquistava oro da zone di conflitto. Valcambi non ha mai confermato né smentito, invocando il segreto commerciale.
Ma qui non si parla solo di etica. Si parla di guerra. «Entrambe le parti in conflitto finanziano la guerra con il commercio di questo oro», afferma Carlino. Le RSF, in particolare, vendono oro anche attraverso Libia e Ciad, generando entrate usate per acquistare armi. L’oro diventa così carburante per la violenza.
C’è qualche segnale di cambiamento. L’Associazione svizzera dei Metalli Preziosi ha annunciato la creazione di un registro per tracciare l’origine dei metalli. Ma per Martina Carlino «non risolve completamente la questione». Servono leggi più stringenti, obblighi di trasparenza, e una regolamentazione globale. «Non solo a livello di singola nazione», sottolinea Edoardo Beretta.
Il caso dell’oro sudanese è lo specchio di un sistema globale che, dietro il luccichio dei lingotti, nasconde sfruttamento, guerra e silenzi. Per la Svizzera, leader mondiale nella raffinazione, è tempo di scegliere: continuare a brillare nell’ombra o diventare faro di trasparenza. Perché ogni grammo d’oro ha un’origine. A volte lorda di sangue.


