Società

Una società nello spettacolo, a trent’anni dalla morte di Guy Debord

A più di mezzo secolo dalla pubblicazione, il libro “La società dello spettacolo” rappresenta ancora oggi una delle analisi più precise del sistema globale in cui viviamo

  • 30 novembre, 15:03
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Di: Romano Giuffrida 

«Life is a cabaret». Cantava così Liza Minelli nei panni di Sally Bowles nel film del 1972 Cabaret del regista Bob Fosse. La vita è un cabaret, uno spettacolo: niente di più vero oggi, ma non come lasciava intendere il sottotesto della canzone per le ineliminabili imprevedibilità e precarietà dell’esistenza (o almeno, non solo per quello). Oggi la vita è uno spettacolo soprattutto perché spettacolarizzare è da tempo la strategia di sviluppo e di comando del sistema globale.

Dal glamour alla guerra, dalle fake news alla politica, dalle “versioni ufficiali dei fatti” alle fiction, tutto concorre a trasformare la realtà in un enorme spettacolo nel quale ciascuno di noi è spettatore-protagonista e nel contempo medium e testimonial di quella stessa strategia di sviluppo e di comando.

«Sembriamo tutti messi su un palcoscenico, e ci sentiamo tutti in dovere di dare spettacolo»: lo aveva intuito lo scrittore statunitense di origine tedesca Charles Bukowski (1920-1994) quando aveva descritto la dimensione esistenziale che, tra consumi ed esibizionismo, si andava affermando in quella stagione cosiddetta “dell’edonismo reganiano”, ossia gli anni Ottanta.

Guy Debord a Parigi nel 1954, Fotografia anonima conservata alla BnF

Guy Debord a Parigi nel 1954, Fotografia anonima conservata alla BnF

L’origine di quella trasformazione antropologica era però di più antica data, risaliva agli anni della produzione industriale di massa.

In quel periodo «Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione». Era una delle convinzioni che il filosofo parigino Guy Ernest Debord, morto suicida all’età di 63 anni il 30 novembre 1994, espresse nei suoi due libri più importanti: La società dello spettacolo pubblicato nel 1967 e Commentari sulla società dello spettacolo, pubblicato diciassette anni dopo.

Il primo saggio di Debord in esergo riportava una citazione tratta da una prefazione che il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach (1804-1872) scrisse per il suo studio Essenza del cristianesimo: «E senza dubbio il nostro tempo (…) preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere (…)». Debord riconobbe in quelle parole lo scenario che nel XX secolo i mass-media erano stati in grado di creare: non solo un mondo trasformato dall’economia in un mondo di merci ma, parallelamente, anche una forza capace di trasformare la vita in rappresentazione.

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Quella forza altro non era che la conversione della merce in spettacolo, una tattica grazie alla quale la merce stessa, dopo aver alienato gli individui trasformando il senso del loro essere nell’avere (questo nella prima fase della produzione di massa), con lo spettacolo, poco tempo dopo, era stata in grado di trasformare l’avere in apparenza. Come? Scrive Debord: «Lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è allo stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione esistente. Non è un supplemento del mondo reale, la sua deco­razione aggiunta in più. È il cuore dell’irrealismo della società reale. In tutte le sue forme particolari, informazione o propaganda, pubblicità o consumo diretto di divertimenti, lo spettacolo costituisce il modello presente della vita social­mente dominante».

E ancora: «Considerato secondo i termini suoi propri, lo spetta­colo è l’affermazione dell’apparenza, e l’affermazione di ogni vita umana, cioè sociale, come pura apparenza».

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Ciò che conta realmente è la merce e quindi l’incessante funzionamento del sistema produttivo capitalistico. Lo spettacolo ha appunto il compito di caricare la merce di significati e valori fittizi per affascinare l’immaginario delle masse consumatrici. Il risultato collaterale di questo processo è il “traghettamento” dei consumatori stessi in un mondo astratto e ideale nel quale il possesso di merci (indipendentemente se utili, inutili o immateriali), non solo valorizza virtualmente l’identità dell’acquirente, ma lo trasforma anche in consumatore di rappresentazioni.

Herbert Marcuse

Herbert Marcuse

Tutto ciò porta allo scivolamento in una irrealtà creduta reale che ha come conseguenza quell’atrofia degli organi mentali (demenza secondo Debord) necessari per valutare contraddizioni ed alternative, ma che, nel contempo, porta a quella «coscienza felice» dell’individuo a una dimensione voluto dal Sistema che nel 1964 aveva preconizzato il filosofo Herbert Marcuse (1898-1979).

Debord nei suoi saggi sosteneva infatti che lo spettacolo, dopo avere investito di sé le merci, aveva avuto via libera alla spettacolarizzazione di ogni ambito della vita, compreso il pensiero e l’agire politico, al punto da metabolizzare ogni forma di critica e farla propria (e, se possibile, renderla merce). In questo modo, secondo il filosofo, i governi (a Ovest come a Est), insieme alla totalità del sistema produttivo, hanno ridotto l’individuo a spettatore non di realtà ma di rappresentazioni (simile cioè a Truman Burbank, il protagonista del film Truman Show), spingendolo a credere anche a ciò che non potrebbe o dovrebbe essere creduto e ad accettare, per citare ancora Marcuse e il suo Uomo a una dimensione, quella «confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà (che) prevale nella civiltà industriale avanzata...».

Ecco perché Debord poté scrivere: «Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone, mediato da immagini».
Anche solo da questi brevi e parzialissimi accenni, si comprende quanto La società dello spettacolo e Commentari sulla società dello spettacolo siano testi incredibilmente attuali. Tutti i temi esaminati, commentati e poi trasposti in pellicola nel 1974 da Debord (i media, la religione, lo Stato, il mercato, ecc.) trovano precisi riscontri nel presente. Non per nulla Debord provocatoriamente, ma con malcelato orgoglio, affermava di essere l’unico intellettuale a non avere mai avuto smentite dal futuro che lui aveva anticipato.

Debord però non aveva previsto (e non avrebbe potuto farlo) l’iperstimolazione neuronica conseguente alla esposizione continua ai flussi informativi e spettacolari della Rete e dei social che sta caratterizzando il XXI secolo (giusto per capire di cosa stiamo parlando: l’utente medio di Internet trascorre circa 6 ore e 40 minuti online ogni giorno; oggi ci sono 5 miliardi di profili attivi sui social equivalenti a più del 62% della popolazione mondiale; nell’ultimo anno il mondo ha registrato una media di 8,4 nuovi utenti di social media al secondo. Dati: Global Digital Report). A cosa porterà tutto ciò? E’ il caso di dire: lo scopriremo vivendo.

Guy Debord

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