Quando ho finito l’università, quasi vent’anni fa, mi sono trovata davanti a un dilemma enorme: cosa fare dopo? Avevo una laurea in Lettere moderne (cioè letteratura italiana), e la cosa che chiunque trovava “naturale” era che diventassi insegnante, “come tua madre”. Io non avevo mai trovato allettante questa professione, causa poca simpatia con gente adolescente, quindi ho chiesto un po’ in giro quali fossero i pro e i contro: “Hai molto tempo libero, così ti puoi fare una famiglia” era il vantaggio più gettonato. “Lo stipendio è basso, non c’è possibilità di crescita né di carriera” era lo svantaggio più menzionato. Mi ricordo la conversazione con un insegnante di liceo, uomo, sui 45 anni, che era arrabbiatissimo con il sistema: “Questo è considerato un lavoro da donne, quindi è pagato malissimo. Io sono quello con lo stipendio più basso, tra i miei amici”.
Allora, ingenua, avevo sgranato gli occhi: non l’avevo mai vista come una questione di genere, la disparità di stipendi tra settori diversi. In effetti, non mi ero mai posta il problema dello stipendio: provengo da una famiglia discretamente benestante che mi aveva lasciato studiare quello che volevo, senza alcuna indicazione o pressione sul “cosa farai dopo”. Ma poi ho iniziato a collezionare esempi e testimonianze, ho studiato, e ho capito che la disparità di stipendi è anche una questione di genere, eccome (gender pay gap, in inglese).
“La maggior parte dei lavori utili, davvero utili, è sottopagata” ha scritto una conoscente in una chat di gruppo.
«Anche se la società ha fatto passi avanti per eliminare la dicotomia tra mestieri “da maschio” e “da femmina”, i cosiddetti pregiudizi inconsci permangono e continuano a influenzare le scelte delle e dei giovani. Timore di incontrare maggiori difficoltà, mancanza di modelli del proprio genere, paura del giudizio dei pari e dei genitori, scarsità di autostima: sono molte le cause per cui ancora oggi ragazze e ragazzi seguono curricula formativi differenziati per genere. La suddivisione è significativa: i ragazzi tendono a evitare formazioni considerate femminili perché percepite come meno valorizzanti, mentre le ragazze, pur aspirando a ruoli tradizionalmente maschili, spesso dubitano delle proprie competenze e desistono per paura di fallire. Questo fenomeno contribuisce alla segregazione orizzontale, che porta a una prevalenza femminile nei settori socio-sanitari e a una predominanza maschile nelle professioni legate a scienza e tecnica»: questo è il commento dell’Ufficio di Statistica su Le cifre della parità. Un quadro statistico delle pari opportunità tra donne e uomini in Ticino, uscito nel 2025.
Persone occupate secondo la classe di reddito professionale lordo, il grado di occupazione e il sesso
In Svizzera nel 2024 le donne hanno guadagnato mediamente il 12% in meno rispetto agli uomini, con differenze più marcate nel settore del lavoro autonomo (Ufficio federale di statistica, Reddito professionale nel 2024). Questo è dovuto al fatto che sono principalmente le donne che si occupano dei lavori di cura, gratuiti o storicamente sottopagati, e realizzati da donne, spesso di origine straniera: “Il comparto del lavoro di cura – nelle sue varianti di assistenti familiari e collaboratrici domestiche – è un settore perlopiù femminile (e femminilizzato) dove le donne, per garantire un futuro migliore ai propri figli e alle proprie figlie, sono costrette ad allontanarsi dalla propria casa e dalla propria famiglia per prendersi cura delle case e delle famiglie di altri; in pratica, fanno per le altre quello che non possono più fare per sé” (Silvia Gola, Casalinghe del capitale, in “Il Tascabile”, 2025).
Ma i lavori di cura non sono “naturali”, come hanno cercato di convincerci per centinaia di anni: sono storicamente assegnati. I lavori di cura fisica, emotiva, educativa non sono biologici o spontanei, ma socialmente attribuiti a donne e minoranze razzializzate (cioè che subiscono razzismo), così da sostenere e rafforzare l’ideologia capitalista. “La riproduzione della forza-lavoro svolta in casa e la sua importanza economica nel processo dell’accumulazione capitalistica divennero invisibili, nella misura in cui il lavoro domestico fu sempre più mistificato come un “lavoro da donne” e una loro vocazione naturale. Le donne di conseguenza furono escluse da molte occupazioni salariate e, se lavoravano per un salario, guadagnavano una miseria in confronto al salario medio maschile”, commenta Silvia Federici in Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria (Mimesis, 2004).
Più un lavoro è visto come “naturale”, meno viene pagato: si chiama de-professionalizzazione e devalorizzazione del lavoro. È il motivo per cui uno dei miei tanti datori di lavoro non voleva pagarmi gli straordinari perché quello che facevo mi piaceva e mi veniva facile, “naturale”.
E quindi, se le donne sono “naturalmente” portate per la comunicazione, l’empatia, la cura, non vale la pena pagarle per i lavori in cui impiegano queste caratteristiche, queste “virtù”. Se qualcosa è una virtù, non è un lavoro, è una passione, una vocazione. E se non è un lavoro, non deve essere pagato: si paga da sé.
L’idea che la cura sia “naturale” nelle donne è ancora oggi fortemente radicata. Per questo spesso si parla di “vocazione”, “chiamata”, “dedizione”: parole che spostano il discorso dal piano del lavoro a quello del sacrificio, volontario.
https://rsi.cue.rsi.ch/cultura/societa/%E2%80%9CNo-pain-no-gain%E2%80%9D-No-grazie--2716232.html
Il lavoro di cura viene spesso considerato un dovere morale, non un lavoro professionale. Non sorprende, allora, che educatrici, OSS, assistenti familiari, collaboratrici domestiche, insegnanti, infermiere siano spesso sottopagate, precarizzate, esaurite, invisibili. Ancora di più se sono donne migranti, razzializzate: “La globalizzazione della cura nasce esattamente in questo crocevia: quando le donne dei Paesi più ricchi hanno avuto l’opportunità di uscire dal chiuso delle mura domestiche e irrompere sul mercato del lavoro. Le donne provenienti da Paesi più poveri sono loro subentrate, venendo a creare una mappa intricata, complessa e transnazionale della cura, un lavoro ancora oggi percepito come “naturale” con riferimento alle aspettative di genere”, commenta Gola (Casalinghe del capitale,).
Durante la pandemia, i lavori di cura sono stati definiti “essenziali”. Ma ciò non ha portato a un miglioramento delle condizioni salariali o lavorative: le donne, che secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità costituiscono il 67% del personale sanitario e sociale nel mondo (Value gender and equity in the global health workforce), hanno pagato un prezzo altissimo in termini di carico mentale, rischio di burnout, esposizione al contagio e aumento delle violenze domestiche. Chi cura non conta, ma se si ferma, tutto crolla.
Come possiamo cambiare questo paradigma? Forse iniziando a chiamare lavoro ciò che è lavoro. A riconoscere la cura come competenza, impegno, fatica, valore. Professionalità. A redistribuire il carico. A pagare in modo equo chi svolge questi compiti. A non dare più per scontato che ci sia sempre qualcuno pronto a tenere insieme quello che non va, gratis. La cura è un atto politico. Non è istinto, non è destino. È scelta, è responsabilità, è costruzione collettiva. E per questo va riconosciuta, e pagata.
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