C’è stato un tempo in cui i draghi abitavano anche il Canton Ticino. Serpeggiavano tra le gole scoscese e i sentieri ombrosi, si annidavano tra le rocce, infestavano le caverne e le paludi, sputavano fuoco e parole, o almeno così si raccontava.
Le leggende delle nostre valli, raccolte in volumi ormai rari o sopravvissute nel racconto orale, ci restituiscono un immaginario popolato di creature mostruose e meravigliose: serpenti verdi, animali a sette teste, folletti crudeli, donne selvatiche, spiriti dei boschi, draghi senza nome. Un universo in cui la meraviglia e il terrore convivevano e nel quale, molto prima che la geografia fosse dominata da mappe e codici catastali, ogni luogo aveva un’anima, o un drago.
Dove abitano i draghi? Una domanda apparentemente ingenua, quasi infantile, eppure tutt’altro che priva di profondità. Non abitano più – o forse non hanno mai abitato – nelle caverne umide o nei fondali abissali; e neppure nei cieli digitali e levigati delle saghe fantasy, dove i draghi appaiono patinati e spettacolari, ma svuotati della loro carica simbolica. I draghi, per chi sa ascoltare, abitano nelle parole, nelle voci che si tramandano senza autore e senza tempo. Storie bisbigliate tra una veglia e un crepuscolo, lungo le valli del Ticino o sotto le travi annerite di un vecchio fienile, sulle rive umbratili di un fiume.

La Verzasca all’altezza di Lavertezzo, di Einaz80, CC-BY-SA-4.0
Nell’immaginario medievale, come insegna Jacques Le Goff, nel suo Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale, la realtà non era solo ciò che si toccava con mano. Accanto ai realia, il mondo tangibile, esistevano i mirabilia, fenomeni straordinari che rompevano l’ordine del quotidiano e rendevano visibile l’invisibile. Sirene, miracoli, visioni, apparizioni di santi, fuochi celesti, draghi. Il mirabile, scriveva Isidoro di Siviglia nelle “Etymologiae”, è anche terribile: ciò che desta stupore provoca timore, in un’esperienza ambivalente del sacro, dove meraviglia e terrore si toccano e si confondono. È la soglia del numinoso, quella forza “misteriosa e tremenda” che Rudolf Otto, all’inizio del Novecento, riconobbe come il cuore dell’esperienza del sacro.
Ecco allora che il drago non è soltanto un mostro: è opposizione, simbolo del caos primigenio, del pericolo, ma è anche il segno della possibilità di affrontarlo neutralizzandolo. Nel mondo cristiano occidentale, il drago è spesso identificato con il diavolo, l’Avversario per eccellenza, ma conserva tracce più antiche, pagane, siano esse mediterranee e/o celto-norrene: genio del luogo, spirito delle acque, incarnazione della potenza naturale non ancora sottomessa dall’uomo.
Nei bestiari medievali si racconta che il drago abiti grotte profonde, che voli avvolto nel fumo, che il suo alito sia velenoso. Ma anche che possa essere domato. E persino convertito.
Nelle leggende della Svizzera italiana, creature affini, serpenti, draghi, esseri mostruosi, emergono qua e là, come lampi d’irrazionale nel cuore del reale. C’è il serpente verde della Verzasca, misterioso e pericoloso, capace di incantare e ingannare. Accanto a lui incombono i Crüsc di Mergoscia, folletti notturni e crudeli, che rapiscono bambini e cucinano rane nelle caldaie rubate. C’è l’uomo selvatico, che vola sopra le capre e muore urlando al vento. Come in un circo dalle mille attrazioni ci sono poi gli spiriti del bosco, le donne della selva, che danzano tra i faggi.

Il serpente verde della Val Verzasca.
Non si tratta di semplici storie per bambini. Sono espressioni dell’inconscio collettivo, sedimentazioni di simboli e visioni che compensano razionalità e controllo. Il bosco, in particolare, è lo spazio della soglia: luogo di pericolo e rigenerazione, dove si entra per perdersi e, forse, per rinascere. Vi abitano demoni e fate, orsi e giganti, draghi e streghe. Il tempo vi scorre diversamente. Cento anni possono durare un giorno.
A questo punto, una precisazione teorica si impone. La critica letteraria ha distinto con cura il fantastico dal meraviglioso. Il primo, come ha osservato Tzvetan Todorov, si fonda su un’esitazione: un dubbio tra spiegazione naturale e spiegazione soprannaturale. Il secondo, invece, accoglie il soprannaturale come dato accettato e condiviso. Le narrazioni delle nostre valli non esitano: sono parte di una cosmologia collettiva, in cui la paura non ha bisogno di spiegazioni, ma di racconti.
Non è un caso che il drago, in molte tradizioni, sia legato all’acqua. Laghi, sorgenti, fiumi stagnanti, paludi: luoghi liminali e insidiosi, spesso inaccessibili, in cui la natura appare come forza ambivalente. Le zone umide sono luoghi dove il confine si dissolve, e proprio per questo diventano ricettacolo di paure, fantasmi, divinità. Anche nel folklore ticinese, molte creature mostruose abitano presso acque torbide, pozzi profondi, cascate fragorose. Sono luoghi che attirano, dai quali bisogna anche guardarsi.

Villaggio di Foroglio in Val Bavona, diramazione minore della Vallemaggia, di Valenic, CC-BY-SA-4.0
Il mostro scacciato non scompare: resta, ma trasformato. Diventa garante di una nuova alleanza tra l’umano e l’ambiente. Come se la sua cacciata fosse il prezzo da pagare per abitare: solo dopo aver domato l’alterità si può offrire qualcosa. L’ostilità della natura diventa paesaggio, mondo domestico. E questo non per sola forza, ma grazie a una ritualità antica, stratificata, culturale. In fondo, ogni narrazione di fondazione è anche un esorcismo.
Ogni città, prima di essere costruita, deve essere purificata, esaugurata, direbbe Ezio Pellizer (Miti di fondazione e infanti abbandonati), spogliata di presenze nemiche, mondificata attraverso il racconto e il rito. Come ha mostrato Anna Benvenuti in un saggio denso e prezioso (Il drago, il santo, l’acqua), la lotta contro il drago, nella letteratura agiografica cristiana, è spesso un gesto topografico di risemantizzazione dello spazio sacro. Emblematico è il caso di San Silvestro, che non uccide il drago che infestava le grotte presso le terme di Traiano, ma lo imprigiona con la forza della parola. Il mostro viene ridotto al silenzio, l’acqua resa potabile, il luogo convertito: è qui che sorgerà la basilica di San Giovanni in Laterano. Il paesaggio, prima contaminato, diventa dimora del sacro. La creatura mostruosa non viene eliminata, ma resa parte di un nuovo ordine simbolico. È un esorcismo senza spargimento di sangue, una fondazione per via di conversione.

Maso di Banco, San Silvestro serra la bocca del drago con un segno di croce, particolare, 1335–1338, Cappella di Bardi di Vernio, Santa Croce, Firenze, di MenkinAIRire, CC-BY-3.0
In questo senso, il drago non è solo un nemico, ma un operatore di soglie, un animale che consente alla cultura di darsi come tale, di fondarsi. In fondo la bestia draconica, come ogni altro essere immaginato, è lo specchio dei nostri confini — scrive Jorge Luis Borges nel suo Libro degli esseri immaginari, una delle raccolte più raffinate del meraviglioso letterario –, dei confini tra civiltà e natura, tra umano e bestiale, tra ciò che conosciamo e ciò che, pur non conoscendolo, ci abita. Il drago vive nel margine, là dove il dicibile si arresta e inizia l’enigma. Non è un caso che i draghi siano spesso associati a boschi, grotte, fonti d’acqua, montagne: tutti luoghi-limite, soglie tra mondi. E il Ticino, con il suo paesaggio frastagliato, i suoi toponimi antichi, le sue leggende orali, è un perfetto territorio draconico. Anzi, è uno dei pochi luoghi dove il drago, anche se invisibile, continua ad abitare. Non nelle caverne, né nei cieli, questo no, ma nei nomi, nei racconti, nelle crepe della memoria, negli stemmi che significano e definiscono la comunità
Città di Bellinzona, Stemma Comunale.
Ma attenzione: il drago ha senso solo se lo riconosciamo per ciò che è. Non un personaggio folclorico da rispolverare, non una creatura fantastica da addomesticare in chiave fantasy, ma una figura dell’immaginario della paura, un simbolo dell’angoscia collettiva, delle tensioni non risolte, dell’alterità che minaccia e fonda l’identità. L’alterità deve tracciare un confine, deve istituire un ordine simbolico.
C’è allora qualcosa di profondamente politico — e al contempo poetico — in questa geografia del mostruoso subalpino. Come ricorda il volume Spazi del mostruoso, il mostro non è ciò che sta fuori dal sistema, ma ciò che lo fonda per differenza, l’eccezione che crea la regola, è il margine che definisce il centro.
In questo senso reincontrare i draghi, e con essi le creature dell’immaginario della paura ticinese — serpenti a sette teste, folletti crudeli, orsi parlanti, donne selvatiche — non significa evocare un passato pittoresco. Significa tornare a guardare il territorio per ciò che è: un palinsesto di narrazioni, visioni, soglie simboliche. Perché i luoghi, per essere davvero abitati, devono risuonare di voci, racconti, immagini. E ogni fondazione — di uno spazio, di una comunità, di un’identità — ha bisogno della sua creatura liminale, della sua ombra, della sua meraviglia, del suo drago.

Escursione teatrale, realizzata da Accademia Dimitri in collaborazione con il Museo di Val Verzasca nell’ambito del progetto PATI (Patrimonio Accessibile Territorio Inclusivo) della SUPSI, lungo il Sentiero delle Leggende (Gerra Verzasca, Maggio 2023) con la partecipazione di persone cieche, ipovedenti e vedenti, di Dveschetti, CC-BY-SA-4.0.
Lo sapeva bene Borges, che scriveva come «la realtà non è mai ciò che accade, ma ciò che raccontiamo che accade». Il drago, in fondo, non è che questo: il racconto necessario, l’immagine che ci permette di pensare ciò che altrimenti resterebbe muto. E se ancora oggi abita le valli del Ticino, lo fa perché noi — nonostante tutto — abbiamo ancora bisogno dei suoi occhi per guardare i nostri confini.
Le leggende ticinesi (1./2)
Laser 16.12.2023, 09:00
Contenuto audio
Le leggende ticinesi (2./2)
Laser 23.12.2023, 15:38
Contenuto audio