Storia

La ferita aperta del Medio Oriente

Le radici storiche e gli sviluppi recenti di una crisi complessa, tra narrazioni contrapposte e drammi umani irrisolti.

  • Ieri, 11:30
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Conflitto israelo-palestinese. Un uomo attraversa le rovine di un edificio distrutto nel campo profughi di Nuseirat, nella Striscia di Gaza centrale (7 dicembre 2024).

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Di: Claudio Vercelli, storico specializzato nello studio della Shoah e della storia dello stato d’Israele 

Tutti ne parlano. Ogni giorno assistiamo ad immagini drammatiche, se non tragiche, dai circuiti di comunicazione. Molti, tuttavia, non sanno quasi nulla del senso di ciò che sta avvenendo. Soprattutto, di quale ne sia l’origine. Ci stiamo riferendo a quello che, oramai da molti decenni, è conosciuto come “conflitto israelo-palestinese”. Almeno dagli anni Sessanta del Novecento in poi. Attenzione: le parole sono tanto importanti quanto i fatti. Se non altro poiché le prime definiscono il significato dei secondi. Molte versioni, troppe interpretazioni, contrastanti interessi ed eccessivi moralismi si sovrappongono ad una comprensione priva di pregiudiziali che non siano quelle, altrimenti invece legittime, della ricerca di una ricomposizione negoziata. Nessuno ha la verità in tasca, e ancora meno la giusta soluzione. La storia, a conti fatti, non si può affettare come il pane. Semmai richiede di essere compresa per le sue molte sfaccettature. Che, per l’appunto, non si possono tagliare con un coltello, ancor più se di lama affilata.

Questa premessa di metodo è indispensabile non per adoperarsi in improbabili esercizi di equilibrismo (“tutti colpevoli, nessuno per davvero tale fino in fondo”) bensì per valutare la clamorosa evoluzione in corso con un minimo di equilibrio critico. Il quale, per essere tale, richiede di cogliere e dipanare l’evoluzione storica, sociale, civile e politica di un confronto tra comunità nazionali diverse, tra di loro comunque in posizione asimmetrica. A tale riguardo, cerchiamo di capirci.

La prima comunità, quella israeliana, è uno Stato, articolato in un complesso di istituzioni regolate dalle complesse dinamiche della democrazia parlamentare e, quindi con essa, dalla separazione dei poteri. Sul modello occidentale. La sua nascita risale al 1948, quando fu decretata, con la «dichiarazione d’indipendenza», l’esistenza definitiva di una comunità politica degli ebrei, basata su di un territorio sovrano. Tuttavia, l’origine è ben precedente, rifacendosi alla progressiva istituzione, e poi alla diffusione, nella Palestina ottomana (fino al 1917) e a quella sotto mandato britannico (fino al 1948), di insediamenti ebraici motivati dal rimando al «sionismo», ossia, al medesimo tempo, l’ideologia nazionalista che caldeggiava la nascita di uno Stato degli ebrei e la “rigenerazione” di questi ultimi come collettività moderna.

Israele, infatti, non è una teocrazia bensì una democrazia dai caratteri etnici. Il significato di quest’ultima espressione rimanda al fatto che l’intera società si definisce come “ebraica”. Non c’è assenso assoluto su cosa ciò voglia dire, posto che nel Paese vivono anche molti cittadini arabi. Rimane tuttavia il fatto che l’ebraicità è identificata come un tratto fondamentale dell’identità collettiva e, con essa, della cittadinanza giuridica, legale, civile e sociale.

La seconda comunità nazionale è invece quella palestinese. Essa esiste in quanto unione collettiva di popolo. È perlopiù stanziata nei territori della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Oltre che in una diaspora mondiale che coinvolge diversi milioni di individui. Tuttavia, la società palestinese non ha una sovranità propria. Ossia, pur essendosi dotata nel tempo di istituzioni civili e forme di autogoverno locale, non è riconosciuta, soprattutto dalla controparte israeliana, come una nazione a sé stante. In altre parole: esistono i palestinesi ma non esiste lo Stato palestinese. Le ragioni di questa situazione vanno cercate nel passato, a partire dal fatto che i piani di spartizione dei territori della Palestina sotto controllo britannico, i quali prevedevano la nascita di uno Stato degli ebrei e di uno per gli arabi, non hanno avuto concreto seguito. Il tutto si consuma peraltro in tempi cruciali, ossia nella seconda metà degli anni Quaranta del Novecento, quando – finita la Seconda guerra mondiale – i processi di decolonizzazione assumono forza e potenza, dando origine, in Asia come in Africa, a nuove comunità nazionali. Molto spesso in maniera tumultuosa. Nonché irrisolta, rispetto al loro futuro destino.

Facciamo però, a questo punto, un passo in avanti. Fondamentale, ai fini del nostro discorso, è un anno, ossia il 1967. È quello della “Guerra dei sei giorni”, quando Israele conquista moltissimi territori arabi. Tra di essi, la stessa Cisgiordania (antecedentemente sotto il controllo del Regno hascemita di Giordania) e la Striscia di Gaza (parte della Repubblica araba d’Egitto). In entrambe le aree (di modeste dimensioni territoriali, la prima di 5.860 chilometri quadrati e la seconda di soli 365 chilometri), risiedevano già d’allora, quasi esclusivamente comunità arabo-palestinesi. Erano perlopiù parte della popolazione autoctona che, nel 1948, dinanzi alla nascita dello Stato d’Israele, era fuggita o comunque si era rifugiata in quei territori. La temporaneità di questa precaria soluzione si era poi trasformata, nel tempo, in una condizione di irrisolta profuganza. Ovvero, nell’essere degli apolidi, tali poiché privi di qualsivoglia cittadinanza. Quindi, a conti fatti, di una qualche protezione rispetto ai propri essenziali diritti. Soprattutto, quelli di esseri umani.

Con l’acquisizione militare di queste due porzioni di terra Israele si garantisce quella che definisce come «profondità strategica», ossia dei territori cuscinetto che, uniti ad altri, rendono più difficile le potenziali aggressioni arabe. Tuttavia, l’amministrazione di queste aree si scontra da subito con un dato di fondo: in esse ci vivono un grande numero di famiglie arabe. Che fare delle prime così come delle seconde? Annettere le terre, rendendole unilateralmente territorio dello Stato d’Israele? Oppure amministrarle, secondo formule giuridiche incerte e assai discutibili? Non di meno, se non soprattutto, come comportarsi rispetto alla popolazione arabo-palestinese che le abita?

L’attuale conflitto israelo-palestinese, per ciò a cui stiamo assistendo – increduli rispetto alla sua inusitata violenza e all’inclemente ferocia – nasce anche da questi presupposti. Poiché costituisce il risultato di quasi sessant’anni non solo di indecisioni ma perlopiù di comportamenti unilaterali. Al dunque: per parte araba, e poi palestinese, si è detto che la risoluzione di tutto stava nella distruzione totale dell’«entità sionista». Ossia, dello Stato d’Israele in quanto prodotto del «colonialismo occidentale». Per parte israeliana, invece, si è finto che non esistesse una controparte non solo araba ma - anche e soprattutto - palestinese. Nel mentre, ossia dal 1948 in poi, costituitasi e, quindi, presente a pieno titolo nello scenario odierno.
Ciò che conosciamo come “conflitto israelo-palestinese” è infatti il prodotto di progressive stratificazioni tra tempi, protagonisti e contesti tra di loro, come tali, assai mutevoli. Non sussiste un’unica chiave di lettura. Già lo si sarà capito. Non di meno, l’identità palestinese, non tanto come coscienza di singole élite bensì in quanto risultato di un complesso moto popolare, quindi in sé collettivo, si genera anche, e soprattutto, nel suo essere risposta all’emarginazione che l’essere considerarti “palestinesi” – e non solo arabi e musulmani – comporta rispetto non solo agli israeliani ma anche al resto del mondo a sviluppo avanzato.

Cosa sta quindi succedendo, ad oggi, rispetto alla Striscia di Gaza? Dopo il pogrom ferocemente promosso dal movimento politico, sociale e terroristico «Hamas», tra il 7 e il 9 ottobre 2023, che come tale ha colpito perlopiù indifesi cittadini israeliani, la risposta che ne è derivata da Israele, nel tempo, non è stata solo quella di rintuzzare l’inusitata aggressione – annichilendo militarmente l’avversario – bensì di ridisegnare completamente il profilo politico, civile e sociale di Gaza medesima.

Cosa vuol dire tutto ciò? Il governo in carica in Israele, presieduto da Benjamin Netanyahu, e composto da una coalizione di forze politiche radicali, perlopiù di destra estrema, intende annettere ad Israele sia i territori di Gaza che della Cisgiordania. Plausibilmente, espellendovi le popolazioni arabe. Nel complesso, circa cinque milioni di individui. Se non più. Questa è la vera chiave di lettura di quanto sta avvenendo. Poiché la violenza, la tracotanza, l’ossessiva continuità delle ripetute operazioni militari – dove i civili sono ridotti solo ed esclusivamente a dei bersagli – non può essere altrimenti spiegata se non con un calcolo di fondo, rispetto al quale il depauperamento e poi la “liberazione” dei territori dalla presenza altrui, sarebbe il risultato ultimo.

Gli arabo-palestinesi possono avere molti torti, a partire dal falso convincimento che lo Stato d’Israele non avesse una ragione storica, civile e morale di esistere. Ma ad oggi, nella più ipocrita indifferenza degli stessi “stati fratelli”, quelli per l’appunto delle società arabe, pagano da sé il prezzo più elevato di un secolare conflitto che esiste, in fondo, proprio per non essere risolto. Posto che ai più, rende assai di meglio così che non altrimenti.

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