Correre, correre più velocemente che si può, lasciandosi alle spalle vortici di polvere, fumi di benzina e immagini indistinte di tavolozze colorate che scorrono a fianco senza soluzione di continuità. Vroom! Come insegna l’onomatopea fumettistica…
Correre, perché finalmente: “La magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia”. Filippo Tommaso Marinetti che scrisse dell’automobile “ebbra di spazio”, si era ubriacato di velocità. La velocità per lui era il nuovo assenzio capace di spalancare le porte della modernità e diventare il parametro della nuova estetica.
Sono i primi anni del XX secolo e l’automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi ha già il suo eroe: è il Mantovano volante ossia Tazio Nuvolari “l’uomo più veloce del mondo” come lo chiamò (a dir la verità, con stipsi poetica), D’Annunzio.
“Quando corre Nuvolari mette paura perché il motore è feroce mentre taglia ruggendo la pianura”.
Certamente con più fantasia del Vate, Lucio Dalla e Roberto Roversi avevano immaginato così le imprese del Nuvola, come veniva chiamato dagli amici il pilota divenuto mito di un’epoca che assaporava nella velocità l’eccitazione per il secolo della modernità. Inebriati dal rombo dei motori delle auto e degli areoplani e contro l’armonica staticità delle forme classiche, Boccioni, Carrà, Balla, Dottori, Depero, Russolo, Severini, tutti sodali della “Caffeina d’Europa” (uno dei tanti soprannomi di Marinetti), a loro volta si lanciarono nell’avventura di sintetizzare sulla tela il dinamismo dei corpi in movimento intuendone le forze in gioco e deformandone l’immagine.
E’ un’avventura che non si pone confini: con lo stilista Vincenzo Fani, conosciuto con lo pseudonimo “Vo lt”, la velocità disegna anche l’abbigliamento femminile: centuplicando, come scrive nel Manifesto della Moda Femminile Futurista del 1920 “le virtù dinamiche della moda, spezzando tutti i freni che le impediscono di correre, trasvolando sulle vertigini dentate dell'Assurdo (…) Idealizzeremo nella donna le conquiste più affascinanti della vita moderna”. Indicazioni che vennero esplicitate da Tullio Crali, pittore (commesso viaggiatore dell’Ideale lo chiamò Marinetti), che provò ad immaginare un abbigliamento adatto a quel complesso plastico vivente che era la donna agli occhi dell’artista futurista.
Comunque, anche se Woody Allen, con spiccato senso della realtà aveva considerato che: “Oltre che impossibile, è anche indesiderabile viaggiare più veloci della luce, visto che, a quella velocità, il cappello continua a volare via”, la ricerca di record sempre più eclatanti nel campo delle velocità raggiungibili dall’uomo, da quegli esordi del XX secolo, non si è mai interrotta. Parallelamente il suo mito ha continuato ad affascinare, forse perché, come aveva intuito Giacomo Leopardi, la velocità “desta realmente una quasi idea dell’infinito, sublima l’anima, la fortifica … E tutto ciò tanto più quanto la velocità è maggiore”. Se è così, viene da domandarsi quanto si sia sublimata l’anima di Felix Baumgartner quando nel 2012, per un progetto di paracadutismo ad alta quota, si lanciò dall’altezza di 38.969 m raggiungendo in caduta la velocità di 1357 km/h.
Al di là della facile battuta, perché l’uomo della modernità continua a sentire il bisogno di questa incessante ricerca della velocità? E’ la “sindrome di Mercurio”, il dio alato, che ha colpito l’umanità nel Novecento? Tesi interessante, ma indimostrabile. Di certo il sistema capitalista ha da subito intuito quanto la velocità, in tutti i suoi aspetti, fosse un elemento strategico indispensabile al suo sviluppo (“illuminante” in tal senso Charlot alle prese con la catena di montaggio in Tempi moderni del 1936). E’ anche evidente, però, che alla base del desiderio di velocità ci sia stata l’eterna sfida dell’uomo contro i propri limiti, e la velocità, anche nel confronto con il mondo animale, ha sempre rappresentato un limite.
Da quando nel 1886 l’ingegnere Karl Benz brevettò la Patent Motorwagen, il primo prototipo di automobile con motore a scoppio e da quando l’ingegnere brasiliano Alberto Santos-Dumont progettò il primo apparecchio volante più pesante dell'aria in grado di decollare autonomamente, fu facile intuire che quel limite poteva essere rapidamente superato. Da qui all’esaltazione futurista della velocità, il passo fu brevissimo. Quell’esaltazione non è mai cessata. Oggi, alcune auto raggiungono velocità superiori ai 450 chilometri (non si capisce a che scopo dati gli ovvi limiti di velocità previsti in tutti i paesi del mondo e soprattutto di fronte alla tragica evidenza di quasi 21.000 vittime della strada lo scorso anno nella sola Europa, delle quali un gran numero di pedoni e di ciclisti nelle città). Dal canto loro, oggi gli aerei di linea viaggiano ad una media di 800 chilometri orari (con punte che sfiorano i mille km/h).
Certamente: la rapidità negli spostamenti ha rappresentato e rappresenta un’indubbia conquista che abbiamo ereditato dagli “spumeggianti” esordi del secolo scorso. Una conquista che però stiamo pagando cara: il Parlamento europeo recentemente ha evidenziato che le auto generano il 60,7% del totale delle emissioni di CO2 in Europa e l’intero comparto aereo, che conta circa duecentomila voli ogni anno, rilascia nell’aria qualcosa come 600 milioni di tonnellate di anidride carbonica.
A osservare oggi gli effetti del riscaldamento planetario, causato soprattutto appunto dalla CO2, viene il sospetto che la velocità, con tutto ciò che nel corso di più di un secolo ha comportato, al di là delle estasi futuriste, si sia in realtà sprigionata velocissimamente dal Vaso di Pandora.