Tu disobbedisci? E io ti picchio. Non c’era scampo: questa era la regola. Per metterla in atto, vi era solo l’imbarazzo della scelta: a disposizione c’erano canne di rattan, palette di legno, fruste con strisce di cuoio, battipanni, righelli. Per genitori e insegnanti l’importante era punire, per rieducare, come sostenevano, bambini e ragazzi colpevoli di infrazioni alle norme familiari o scolastiche.
Questa “pedagogia nera” (definizione introdotta nel 1977 dalla sociologa berlinese, specializzata in Scienze dell’educazione, Katarina Rutschky), era rimasta in auge dall’antica Grecia almeno fino alla fine del 1800.
Non che questi metodi fossero scomparsi nel secolo successivo, anzi. Fortunatamente, però, già dall’inizio del Novecento si svilupparono anche pensieri e progetti educativi non solo contrari alle punizioni corporali e psicologiche, ma finalizzati finalmente a dare ai bambini ciò che fino a quel momento era stato negato loro: identità e diritti. Per esempio, in Spagna, a Barcellona, nel 1901 Francisco Ferrer Guardia, pedagogista di formazione anarchica, inaugurò la Escuela moderna. Per quell’epoca, le sue proposte furono rivoluzionarie. Innanzitutto secondo Ferrer l’educazione del bambino doveva basarsi sull’assoluto rispetto della sua personalità, una cosa inaudita sino ad allora. Il suo obiettivo era rendere i bambini consapevoli della propria libertà e per questo motivo veniva insegnato loro a contestare il concetto di autorità e ogni pregiudizio. Inutile dire che dalla scuola era bandita ogni forma di violenza.
Immaginare una nuova pedagogia non fu solo il sogno di un libertario: più o meno negli stessi anni, in Italia, Maria Montessori, medica, pedagogista ed educatrice si propose di sviluppare l’autonomia del bambino nel pieno rispetto della sua libertà e dando spazio alla sua creatività. Al centro del pensiero di Montessori c’era il bambino, ossia, un essere al quale era riconosciuta la capacità di sviluppare autonomamente energie creative e morali. Compito dell’adulto, per la pedagogista, era quello di aiutare i bambini a riconoscere le loro potenzialità, in armonia con i loro bisogni e soprattutto accrescendone la forza di volontà. Come può il bambino, si domandava infatti Montessori, scegliere di obbedire se ancora non ha sviluppato la volontà? Va da sé che anche il suo metodo, tutt’ora utilizzato in migliaia di scuole nel mondo, rifuggì da qualsiasi forma di violenza o sopruso nei confronti dell’infanzia.
Nel XX secolo le nuove idee giunsero pure in Gran Bretagna, dove invece, sin dal 1400, l’uso della punizione corporale era parte integrante dei metodi educativi.
“Essere a favore della vita vuol dire divertimento, gioco, amore, lavoro interessante, risate, musica, ballo, considerazione per gli altri, fiducia nell’uomo. Essere contrario alla vita vuol dire dovere, obbedienza, profitto, e potenza”: così pensava Alexander Sutherland Neill, pedagogista scozzese.
Sulla base di quelle convinzioni, nel 1921 a Leiston, cittadina a circa centottanta chilometri da Londra, Neill inaugurò la Summerhill School, basata sull’assenza di gerarchia e sull’uguaglianza tra studenti e insegnanti. A Summerhill, tuttora attiva, il bambino è libero di sperimentare, di muoversi, di giocare, di dare ascolto o meno ai consigli degli adulti, ma anche di decidere se seguire il programma di studi proposto dalla scuola, senza perciò incorrere in punizioni. Tra l’altro, consapevole dell’importanza dell’espressione della sessualità infantile per lo sviluppo della personalità, Neill non ha mai scoraggiato i giochi sessuali tra i bambini.
Nel 1946, dall’altra parte dell’Oceano fu un pediatra e docente di psicologia dello sviluppo all’Università di Pittsburgh, a dare uno scossone alla pedagogia tradizionale. Si chiamava Benjamin Spock e un suo libro, “Il bambino. Come si cura e come si alleva”, per molti anni rivoluzionò l’atteggiamento dei genitori nei confronti dei loro figli. Contrario agli atteggiamenti autoritari e alla deleteria “pedagogia del ceffone”, Spock invitò i genitori a dare ai bambini rispetto e amore senza reprimere le loro espressioni fisiche di affetto e a lasciarli liberi di sviluppare le inclinazioni individuali e la creatività. Per le sue idee Spock, fu naturalmente inviso all’establishment che lo accusò di aver diffuso quel permissivismo che aprì la strada niente meno che alla contestazione giovanile degli anni Sessanta e Settanta.
Nel 1968, un’altra voce si levò a favore di una nuova pedagogia. Arrivava dal Brasile ed era la voce di Paulo Freire, pedagogista di formazione marxista e autore, tra l’altro, di “La pedagogia degli oppressi”, un testo considerato ancora oggi fondamentale. Freire distingueva due tipi di educazione: la depositaria, ossia quella tradizionale nella quale l’educatore “deposita” le proprie conoscenze agli allievi che le devono immagazzinare e ricordare, e quella problematizzante. Quest’ultima, preferita da Freire, voleva che l’educatore non fosse più l’unica fonte del sapere, ma che il sapere stesso nascesse dalla riflessione comune tra insegnanti e allievi. Freire non si riferiva solo all’educazione dell’infanzia, ma anche a quella del popolo, a quella cioè degli oppressi. Il suo obiettivo era infatti favorire lo sviluppo dell’autocoscienza rispetto alla propria condizione esistenziale al fine di spingere l’individuo a prendere in mano il proprio destino. Ivan Illich, Marcello Bernardi, don Milani sono altri intellettuali che, nel Novecento, hanno contribuito in maniera significativa alla riflessione sulla pedagogia, una riflessione che non si è mai interrotta e, probabilmente, mai potrà interrompersi. Al di là delle teorie che verranno, speriamo però che comunque campeggi sempre su tutte la domanda posta da un altro importante pedagogista e scrittore del secolo scorso, Gianni Rodari, ossia: vale la pena che un bambino impari piangendo quello che può imparare ridendo?
Educare controvento
Moby Dick 28.10.2023, 10:00