All’inizio fu solo un sussurro appena percettibile. Una voce di donna che rompeva il silenzio della chiesa. Poi una seconda si unì alla prima, tremante ma risoluta. Poi una terza. Poche note, niente di più, che però bastarono a gelare l’aria della piccola navata. Gli uomini si voltarono di scatto, i volti irrigiditi dallo stupore. Qualcuno gridò, la voce spezzata dall’indignazione “Tacete, donne!” Ma le donne, questa volta, non tacquero. Continuarono a cantare. Più forte, sempre più forte. Le loro voci si moltiplicarono, riempirono la piccola chiesa di pietra, salirono verso le volte affrescate e alla fine coprirono ogni silenzio imposto.
Era una domenica come tante a Isone, quel 1820. Nella chiesa di San Lorenzo, il sole filtrava dalle finestre strette, le panche di legno scricchiolavano sotto il peso dei fedeli, l’odore dell’incenso si mercolsava a quello della terra portata dalle suole dei contadini. Ma ciò che accadde quel giorno non aveva precedenti. Per la prima volta nella storia del villaggio, le donne — a cui non era mai stato concesso di aprire bocca durante la messa se non per pregare sottovoce, o maliziosamente aggiungevano alcuni, per sbadigliare — avevano osato cantare ad alta voce. Non per sfida, non per vanità, ma perché avevano imparato a farlo e sentivano, nel profondo, di doverlo fare.
Quel canto, semplice e ostinato come il vento che non smette di soffiare, sarebbe diventato il simbolo di una rivolta silenziosa ma inarrestabile. Una rivolta che sarebbe durata dieci lunghi anni e avrebbe scosso non solo Isone, ma l’intero Canton Ticino, arrivando fino alle stanze del potere a Bellinzona e alle sacre mura del Vescovo di Como.
Il canto proibito
Quando il giovane parroco Cesare Trefogli di Torricella era arrivato a Isone, aveva trovato ciò che si aspettava: una comunità montanara governata da ruoli immutabili come le stagioni. Gli uomini cantavano ad alta voce in chiesa, spesso in modo disordinato e stonato, con quella sicurezza di chi non deve mai chiedere permesso. Le donne, invece, restavano in silenzio. Pregavano sommessamente, le labbra che si muovevano appena, quasi parlando all’orecchio del buon Dio perché nessun altro potesse ascoltare.
Trefogli, giovane e appassionato di musica sacra, non vedeva in questo ordine nulla di divino. Vedeva solo voci sprecate, talenti negati, un coro monco. E così decise di fare ciò che nessuno aveva mai fatto prima: insegnare il canto anche alle donne. E dopo le funzioni domenicali, quando gli uomini erano già nelle osterie o nei campi, si radunava con loro nella penombra della chiesa. Finché un giorno, senza preavviso, senza un segnale concordato, le donne cantarono durante la messa solenne. Cantarono come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Gli uomini, dicono le cronache dell’epoca, “sorpresi si guardavano l’un l’altro scandalizzati”. Come è possibile, si chiedevano con gli occhi spalancati, che si profani così il tempio di Dio? E come è possibile che il curato non dica nulla, che non le fermi, che non ristabilisca l’ordine naturale delle cose? Mentre le donne cantavano, lo sdegno degli uomini si manifestava in ogni forma possibile. C’erano atti di minaccia, pugni alzati, diti puntati. C’erano beffe, risate sarcastiche, sbuffate di disprezzo. C’erano risa nervose di chi non sa se arrabbiarsi o ridere davanti all’assurdo. E c’erano parole, parole acerbe, taglienti come lame, rivolte all’indirizzo delle cantanti. “Vergogna!” gridava qualcuno. “Tornate al vostro posto!” urlava un altro.
Lo scandalo
Fuori dalla chiesa, sulla piazza del villaggio, sui gradini di pietra consumati dai secoli, non si parlò più d’altro. Lo scandalo era in ogni famiglia. Nelle osterie del paese, dove gli uomini bevevano vino e discutevano di raccolti e di politica, si parlava solo di questo: le donne che avevano cantato. Lo scandalo, come un incendio in una foresta secca, passò in poche ore di casa in casa, di osteria in osteria, di alpeggio in alpeggio. In pochi giorni, arrivò fino a Bellinzona, al Consiglio di Stato, al Gran Consiglio, persino al Vescovo di Como.

Il parroco Trefogli, chiamato a spiegare l’accaduto, difese con fermezza le sue parrocchiane. In una lettera alle autorità ecclesiastiche scrisse parole che oggi suonano ovvie, ma che allora erano rivoluzionarie: le donne sono anch’esse creature di Dio, create a Sua immagine, e non si può vietare loro di lodarlo con la voce che Egli stesso ha dato loro. Ma il Vescovo di Como non fu dello stesso parere. In una lettera ufficiale, redatta con l’inchiostro nero della condanna, definì il canto femminile “scandaloso” e “profanatore del tempio”. Ordinò che cessasse immediatamente, senza eccezioni, senza compromessi.
Le donne di Isone, però, continuarono a cantare.
La resistenza testarda
Nel 1824, quattro anni dopo quel primo canto, un Consigliere di Isone scrisse a più riprese, sempre più indignato, al Governo cantonale. Leggere le sue parole oggi, a distanza di due secoli, fa sorridere per quella mescolanza di pomposità burocratica e scandalo genuino.
Il 3 gennaio scriveva: “Sono ingrati alla religiosa attenzione di molti i trilli delle donne non mai nella loro chiesa intesi.” Il 24 ottobre, con evidente frustrazione, aggiornava: “Le femmine isonesi astenutesi dal cantare assai per poco, ripigliarono e proseguirono il vietato loro canto sino alla prima domenica dell’andante ottobre.”
Si tentarono compromessi. Uomini ragionevoli, stanchi di un conflitto che sembrava non avere fine, proposero soluzioni intermedie: le donne avrebbero potuto cantare solo in alcune feste religiose, le più importanti, sotto la supervisione del parroco. Ma a Isone nessuno le rispettò. Il Vescovo, sempre più irritato da quella che percepiva come un’insubordinazione intollerabile, emanò infine l’arma più terribile nel suo arsenale: un decreto di scomunica contro chiunque avesse continuato a cantare. La scomunica, nel 1820, non era una minaccia vuota. Significava l’esclusione dalla comunità cristiana, l’impossibilità di ricevere i sacramenti, il rischio — per chi ci credeva — di perdere l’anima stessa.
Il diavolo che non venne
Le donne tacquero. Per qualche settimana il silenzio tornò a regnare durante le messe. Gli uomini tirarono un sospiro di sollievo. L’ordine naturale sembrava ristabilito. Poi, vedendo che non accadeva nulla — che il cielo non si apriva, che la terra non tremava, che nessun fulmine divino colpiva la chiesa — le donne ripresero a cantare. “Vedendo che il diavolo non veniva a prenderle,” raccontano le cronache con un’ironia involontaria, “ripresero più allegramente di prima.”

Le autorità civili, a questo punto, provarono con le multe. Da due a quattro franchi per ogni donna che avesse cantato durante la messa — una somma considerevole per famiglie contadine che vivevano di poco. Ma le multe restarono sulla carta. Nessuno le pagava. E nessuno, in fondo, aveva davvero il coraggio di andare casa per casa a esigerle da donne che non mostravano alcun senso di colpa.
Le donne continuavano, ogni domenica, con la stessa calma testarda di chi non riconosce colpa in ciò che fa. Non gridavano slogan. Non organizzavano proteste. Semplicemente cantavano, e nel loro canto c’era una forma di resistenza più potente di qualsiasi rivolta armata.
La difesa delle voci
Nel gennaio 1829, nove anni dopo quel primo canto, accadde qualcosa di ancora più straordinario. Le donne di Isone assunsero un avvocato. Un avvocato che scrisse al Consiglio di Stato del Canton Ticino “in nome di tutte le donne del villaggio di Isone”. Nella sua memoria difensiva, l’avvocato argomentava che le sue clienti non avrebbero cessato il canto, perché lo consideravano un atto di religione, non di ribellione. Lodare Dio con la voce, sosteneva, non poteva essere un peccato. Non poteva essere uno scandalo. Non poteva essere un crimine. E aggiunse una frase che fece sorridere persino gli austeri funzionari governativi a Bellinzona, una frase che venne trascritta nei verbali ufficiali: “Persino i pesci lodano il Creatore con il loro movimento nelle acque; perché le donne non dovrebbero farlo con le voci che Dio ha dato loro?” Era un’argomentazione teologicamente discutibile, ma umanamente inoppugnabile.
Le contadine ribelli di Isone
RSI Cultura 03.11.2025, 20:40
La resa
Alla fine, fu il Commissario di Bellinzona, funzionario governativo incaricato di vigilare sul caso e di trovare una soluzione, a scrivere la parola fine su quella vicenda. Nella sua relazione conclusiva al Consiglio di Stato, dopo aver esaminato anni di documenti, lettere, denunce e controdenunce, scrisse una frase che aveva il sapore della resa: “Meglio lasciar cantare le donne, perché Isone non si doma senza una forza imponente!” Non era un riconoscimento di diritti. Non era un’ammissione che le donne avessero ragione. Era semplicemente il riconoscimento di un fatto: che quelle donne non si sarebbero fermate, e che fermarle avrebbe richiesto una violenza che nessuno, in fondo, aveva voglia di esercitare per una questione di canto in chiesa.
Le donne di Isone avevano vinto. Non con la forza. Non con i discorsi. Non con le leggi. Ma con la semplice, testarda, inarrestabile persistenza del loro canto.
La metà di noi
La storia infinita 03.11.2025, 20:40


