Territorio e tradizioni

Òss da mòrt

Ossi da mordere o dei morti?

  • 31 October 2023, 07:00
  • FOOD
Oss da mort

Oss da mort

Di: Franco Lurà

La questione si presenta puntualmente ogni anno. All’avvicinarsi della ricorrenza del 2 novembre, sulle lavagne e sugli scaffali di pasticcieri e panettieri, sui banconi di alimentari di negozi e grandi magazzini, compare la scritta che annuncia il dolce per eccellenza di quel momento: i biscotti duri, di colore biancastro, impastati con mandorle e denominati di regola Ossi da mordere.

Gli stessi che Piero Bianconi aveva eletto a titolo di una sua raccolta, pubblicata per le Edizioni del Cantonetto, impresa culturale assai meritevole voluta e promossa da Mario Agliati. Il Bianconi così li descriveva:

“Ossi da mordere sono detti da noi certi piccoli dolci piatti e scabri, di colore lunare variato appena dalle pallide macchie delle mandorle: crocchianti, aridi; e domandano un certo lavoro ai denti che li mordono. Veramente il titolo andrebbe scritto o meglio parlato in dialetto, perché riuscisse più chiaro.” 

Ma le cose non stanno propriamente così e la traduzione del nostro autore potrebbe rivelarsi errata, perché in realtà in dialetto le cose a un primo sguardo possono apparire tutt’altro che chiare.

Il nome, infatti, è òss da mòrt, con un’interpretazione che può risultare duplice in quanto in molte parlate la consonante finale è sorda sia in mòrt ‘morto’ che in mòrd ‘mordere’, dove la -d è un puro espediente grafico, utile per la giusta comprensione del termine.

Il dilemma non ha però ragione di sussistere se si esaminano le cose in modo più approfondito.

Anche solo fermandosi all’aspetto del nome, esistono attestazioni in cui questi biscotti hanno una formulazione univoca, come ossi de morto in area veneta o la denominazione Totenbein, gamba dei morti, nel mondo tedescofono. Ci sono inoltre dialetti, come per esempio nella parte meridionale del nostro Cantone, in cui il concetto di ‘mordere’ è espresso da termini quali cagná, sgagná e simili, mentre mòrd ha come significato quello di ‘prudere’.

L’etimologia tanto potrebbe già bastare per dirimere la questione. Ma la faccenda merita qualche parola in più, che inserisca l’usanza e la cosa in un contesto più ampio.

Abbiamo qui a che fare con una tradizione antica, sicuramente già pagana, che consisteva nell’offrire delle fave ai morti, i quali, secondo una credenza molto diffusa, ritornano in determinati periodi dell’anno sulla terra. E fra questi ovviamente il momento privilegiato è quello della notte sul 2 novembre, data fissata nel X secolo nel calendario cristiano come giorno dedicato ai defunti.
Inizialmente, quindi, le fave venivano date ai morti o per ingraziarseli o per dare loro conforto dopo il viaggio compiuto per giungere sulla terra. È lo stesso motivo per cui pure nelle nostre terre ticinesi per quel giorno si cambiavano le lenzuola del letto per consentire un miglior riposo ai morti, si preparavano per loro sul tavolo di casa delle castagne e del vino, affinché potessero rifocillarsi, si riempiva un catino con dell’acqua per far sì che potessero rinfrescarsi e lavarsi.

Col passare del tempo le fave, spesso assieme o in alternativa ai ceci, sono diventate il cibo di prammatica per il 2 novembre, soprattutto preparate in minestra, e addirittura in alcune regioni d’Italia venivano distribuite in occasione dei funerali.
In seguito, si è passati a una sorta di trasformazione metaforica del cibo, a una sua reinterpretazione che ha portato alla sostituzione del vegetale con un dolce, che riprende la forma di una fava e che non ha faticato a diffondersi e a imporsi.

Al punto che anche Pellegrino Artusi, nel suo “La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene”, lo cita: “Fave alla romana o dei morti. Queste pastine sogliono farsi per la commemorazione dei morti e tengono luogo della fava baggiana, ossia d’orto, che si usa in questa occasione cotta nell’acqua coll’osso di prosciutto. Tale usanza deve avere la sua radice nell’antichità più remota poiché la fava si offeriva alle Parche, a Plutone e a Proserpina ed era celebre per le cerimonie superstiziose nelle quali si usava”. 

L’Artusi fornisce poi tre ricette per la preparazione ed è interessante notare come in nessuna compaiano come ingrediente le fave. Resta il nome, ma il significato è ormai cambiato. A quel punto l’ulteriore passaggio era lì da avvenire. Per il loro aspetto fisico, il loro colore e la loro durezza, questi dolci sono stati interpretati come ossi, dando così origine alla denominazione oggi più diffusa.

Sbaragliato quindi il campo dall’ipotesi “ossi da mordere”, resta da specificare un aspetto importante per la corretta comprensione della denominazione. Che è da intendere non come osso di morto o come ossi dei morti, vale a dire come componente del loro corpo, bensì come osso per i morti, per la ricorrenza dei defunti. Una lettura essenziale, che va ben oltre il momento effimero del piacere alimentare e che colloca l’usanza nella giusta prospettiva, permettendoci di cogliere la profondità culturale che si cela dietro la fragranza di questo dolce particolare.

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