Stephan Schmidheiny, l’imprenditore elvetico erede del colosso Eternit aveva compreso la portata del pericolo e scelse di non fermarsi. Come scrivono giovedì i media italiani, la Corte d’Appello del Tribunale di Torino lo scrive a chiare lettere. Secondo i magistrati il manager svizzero era pienamente consapevole dei rischi dell’amianto, ne aveva discusso in convegni, aveva letto le ricerche in materia e aveva approfondito le nozioni sui suoi effetti. Tuttavia, secondo il tribunale piemontese, “decise di ignorarli”
Schmidheiny ritenne opportuno continuare a produrre Eternit, far lavorare centinaia di collaboratori in mezzo a nubi di polvere tossica, mentre a Casale Monferrato e anche presso la ditta consociata Saca a Cavagnolo si iniziavano a contare i primi decessi. La sentenza d’appello del processo Eternit bis – costituita da ben 600 pagine fitte di dati, nominativi, ricostruzioni e schemi, parla di “colpa con previsione”, ossia una definizione giuridica che può essere considerata come un verdetto morale.
Secondo i giudici, infatti, l’imputato “si è rappresentato che dalla gestione potessero derivare numerosi decessi dovuti all’esposizione continuativa e massiccia alle polveri d’amianto”, il che significa che l’imprenditore svizzero sapeva che le particelle alla base di tale polvere avrebbero ucciso gli operai, ma non fece nulla di veramente efficace per evitarlo.
Condanna dell’imputato ridotta a nove anni e sei mesi
La Corte di Torino lo ha condannato a nove anni e sei mesi di carcere per omicidio colposo aggravato, riducendo tuttavia la pena rispetto ai dodici anni inflitti in primo grado dalla sentenza del Tribunale di Novara. È stato d’altronde riconosciuto responsabile del decesso di 91 persone, una cifra notevolmente contenuta tenendo conto dei 392 casi contestati all’inizio e poi prescritti o esclusi.
I media italiani pongono poi l’accento sul fatto che Schmidheiny non si sia mai presentato in aula, preferendo il silenzio assoluto sulla vicenda e pure sulle affermazioni della Pubblica accusa, formata dalla sostituta procuratrice generale Sara Panelli insieme ai colleghi Gianfranco Colace e Maria Giovanna Campora, secondo la quale le prove bastavano per chiedere l’ergastolo per “omicidio volontario con dolo eventuale”, ma la Corte ha scelto un’altra via, confermando la colpa cosciente, riconoscendo la previsione del rischio ma non la volontà di accettarlo in toto. I giudici del resto evidenziano che “l’imputato non ha fatto quanto in suo potere per evitare tali eventi” e che “ha previsto la possibilità che i lavoratori sviluppassero gravi patologie con esito letale, accettando il rischio del loro verificarsi”.
Dalle motivazioni della sentenza, inoltre, emerge un quadro lavorativo impensabile attualmente. La Corte di Torino segnala infatti che “non furono adottate tempestivamente, o solo con molto ritardo, neppure cautele di minore impegno economico” e si lavorava “senza maschere filtranti, con le scope, aprendo i sacchi a mano”. Gli scarti di amianto erano frantumati “a cielo aperto” e le fibre si disperdevano alla prima folata di vento. Cosicché “l’aria era impregnata di polveri e la frantumazione produceva nuvole tossiche spinte verso le case” dal vento.
Notiziario 15.00 del 16.10.2025