Bandiere con teschi pirata, smartphone come arma e una sete di giustizia che attraversa continenti. La Generazione Z, nata tra la fine degli anni ’90 e la prima decade del 2000, sta portando nelle piazze di numerosi Paesi a basso reddito le proprie rivendicazioni sociali e politiche. Senza leader né partiti, questi giovani tra i 15 e i 25 anni si organizzano online, condividono simboli e slogan, e scendono in strada con una rabbia che ha radici comuni: corruzione, disuguaglianze, inettitudine delle classi dirigenti.
In Nepal, Bangladesh, Sri Lanka, Marocco, Madagascar e Kenya, la protesta ha assunto forme simili, pur declinandosi secondo le specificità locali. In alcuni casi, come in Nepal e in Sri Lanka, le mobilitazioni hanno portato alla caduta di governi. Ma il vuoto lasciato dal potere rovesciato non è ancora stato colmato. Come spiega a Modem Chiara Reid, collaboratrice RSI nel subcontinente indiano, “è relativamente facile prendersela con la corruzione, ma quando le diseguaglianze e le ingiustizie sono parte della vita quotidiana, ci sono caste. C’è un sistema crudele di privilegi. Combattere solo la corruzione non basta, serve un progetto alternativo e questo ancora non è emerso”.

La folla prende d'assalto la residenza del primo ministro a Dhaka, in Bangladesh, 5 agosto 2024
In Africa - spiega Freddie Del Curatolo, collaboratore RSI a Nairobi -, dove l’80% della popolazione ha meno di trent’anni, la Gen Z è una forza demografica e culturale. In Kenya, i giovani hanno chiesto meno tasse e più opportunità nei settori tecnologici. In Marocco, la protesta è esplosa contro gli investimenti per i Mondiali di calcio 2030, percepiti come uno spreco a fronte di una sanità pubblica in crisi. Ma in molti Paesi africani, la mobilitazione è ostacolata da regimi autoritari: in Uganda e Tanzania, attivisti scompaiono o vengono arrestati, soprattutto in prossimità delle elezioni.

I giovani manifestano contro la corruzione e per un miglior sistema sanitario ed educativo a Rabat, Marocco. 4 ottobre 2025
Secondo la sociologa Alessandra Polidori, la Gen Z si riconosce come generazione in risposta a una “policrisi” globale: climatica, economica, valoriale. Le proteste tengono insieme individualismo e collettività, e si distinguono per una struttura orizzontale, resa possibile dagli strumenti digitali. “Questi giovani non avanzano semplici richieste,” spiega Polidori, “ma propongono cambiamenti concreti. Sanno ciò che vogliono”.
La pandemia ha accelerato il processo; durante i lunghi mesi di chiusura, anche nelle zone rurali, molti giovani si sono riversati online, scoprendo una rete di contenuti e discorsi politici condivisi. È nata una lingua comune, fatta di meme e rivendicazioni, che ha superato barriere linguistiche e culturali. Ma quando si tratta di tradurre la protesta in azione politica, emergono le differenze e le difficoltà. In India, ad esempio, la repressione online è capillare: centinaia di arresti per post critici scoraggiano la mobilitazione.
Eppure, anche in Europa, la Gen Z si mostra sensibile alle lotte dei coetanei in altri continenti, come si è visto con le manifestazioni degli ultimi mesi a sostegno della Palestina. I social, quindi, permettono non solo di organizzarsi, ma anche di vedere e sentire ciò che accade altrove, comunicando e abbattendo le barriere geografiche.