Sei monitor giganti appesi alle pareti, una decina di addetti americani a sorvegliare da remoto la distribuzione di cibo attraverso telecamere in grado di zoomare sui civili palestinesi in attesa di aiuti, sotto lo sguardo di oltre 400 contractor statunitensi armati fino ai denti. E – soprattutto - un ufficiale dell’esercito israeliano presente nello stesso locale a supervisionare tutta l’operazione all’interno del blindatissimo compound alle porte della Striscia di Gaza, tra l’eco degli ultimi bombardamenti israeliani e il via-vai di muscolosi veterani USA armati fino ai denti.
Così lo scorso 10 ottobre avevamo avuto accesso esclusivo alla sede operativa della “Gaza Humanitarian Foundation” (GHF), un paio di chilometri dalla barriera di ingresso nel sud della Striscia a ridosso del confine con l’Egitto.
Era una delle ultime giornate effettivamente operative di questa organizzazione. A dispetto del nome però, la GHF ha alimentato fin da subito molti dubbi sia sulla sua natura di “fondazione” che – soprattutto – di “umanitaria”: la sua sicurezza è sempre stata affidata a sub-appalti gestiti da ex-ufficiali dei reparti speciali statunitensi con lunga esperienza di guerre dall’Afghanistan all’Iraq ma privi di qualsiasi competenza o background in ambito umanitario o di crisi.

Sei mesi di polemiche e accuse
Dopo mesi di polemiche, accuse e critiche per aver sostituito dallo scorso maggio con soli 4 punti di aiuti alimentari i 400 centri di distribuzione gestiti in precedenza dalle Nazioni Unite, la “Gaza Humanitarian Foundation” (GHF) ha annunciato la fine della sua attività nella Striscia di Gaza.
“Completata la storica missione umanitaria con la distribuzione di 187 milioni di pasti” annuncia con toni trionfalistici il comunicato inviato alla RSI ieri in serata dalla GHF, Israele le aveva concesso di operare nella Striscia durante l’ultima fase dei bombardamenti israeliani che hanno provocato quasi 70mila morti tra i palestinesi, in gran parte civili.
La GHF nasce con un intento preciso: gestire gli aiuti umanitari al posto dell’agenzia per i palestinesi “UNRWA”, accusata da Israele di complicità con Hamas per il massacro del 7 ottobre 2023 (oltre 1200 morti e 251 ostaggi).

L’idea: privatizzare gli aiuti umanitari
L’idea di privatizzare la distribuzione di cibo rimpiazzando la principale agenzia ONU – e le centinaia di ONG locali con cui collaborava - avrebbe trovato consenso anche nell’amministrazione Trump, contraria a qualsiasi forma di cooperazione e multilateralismo.
Registrata a inizio 2025 attraverso opache procedure in Delaware, la GHF in aggiunta alla sede negli USA aveva tentato l’apertura di una filiale anche in Svizzera. Una succursale mai veramente operativa e – anzi, chiusa d’ufficio dalle autorità elvetiche per la mancanza di requisiti formali la scorsa estate. “Non siamo mai stati attivi” ha poi confermato alla RSI un portavoce, confermando implicitamente che si trattava di un’operazione di facciata solo per millantare rapporti con la Ginevra (quella sì) umanitaria. Un’opacità allargata anche alla provenienza dei fondi: a parte 30 milioni di dollari poi ridotti a 15 dalla Casa Bianca, la GHF non ha mai reso nota la provenienza di altri suoi finanziamenti, a cui avrebbero partecipato anche non meglio precisati paesi dell’Europa Orientale.

Il ruolo dei cristiani statunitensi
Poco raccontato in questi mesi, è stato invece il determinante ruolo dei cristiani evangelici, una formidabile componente elettorale di Trump. Non a caso, la società che ha garantito alla GHF il personale di sicurezza in questi mesi – la “UG Solutions” – ha sede in North Carolina, nella cosiddetta ‘Bible Belt’, la “fascia della Bibbia” fortemente cristiana del sud degli Stati Uniti. Lì ha sede anche la “Samaritan’s Purse” (la borsa dei Samaritani): è una gigantesca organizzazione caritatevole fondata nel 1970 da Bob Pierce, lo stesso missionario battista che vent’anni prima aveva creato “World Vision”. Nel 1973 venne affiancato dall’allora student Franklin Graham, divenuto poi il più celebre predicatore e pastore protestante d’America.

Ho incontrato volontari della “Samaritan’s Pursue” – riconoscibili dalla casacca blu e dal giubbotto anti-proiettile - nel centro di distribuzione della GHF nel giorno in cui l’ho visitata. Ma non hanno accettato di parlare davanti al nostro microfono. Nemmeno il vice-presidente di Samaritan’s Purse, Ken Isaacs, in visita in Israele la scorsa estate, aveva accettato la richiesta di intervista della RSI.
Il loro “sostegno fondamentale” – con queste parole - è stato formalmente riconosciuto dal direttore della GHF John Acree nel comunicato finale di ieri con cui si annunciava la fine della “missione” a Gaza.
Un bilancio più scuro che chiaro
Le operazioni di distribuzione di cibo della GHF nella Striscia avevano preso avvio dopo oltre due mesi di blocco totale da parte di Israele: da marzo a fine maggio l’esercito aveva impedito l’ingresso di aiuti umanitari e sanitari a Gaza malgrado le condizioni catastrofiche di oltre due milioni di civili sfollati e accampati in tende precarie.
Dal bilancio della GHF - fornito adesso che l’operazione è stata sospesa - mancano però i circa 2.000 palestinesi uccisi in questi mesi a margine o durante le distribuzioni di aiuti umanitari.
Fin dai primi giorni, i punti di distribuzione della GHF erano stati immediatamente presi d’assalto da una popolazione stremata dalle bombe e dalla fame, con l’ONU che aveva dichiarato la carestia.
I soldati israeliani hanno utilizzato munizioni e armi pesanti per il controllo della folla, col risultato di continui massacri di civili in attesa di un sacco di farina.
In una mail alla RSI, l’IDF aveva smentito di aver aperto volontariamente il fuoco sui palestinesi in attesa di cibo ai siti della GHF. Ma nei mesi scorsi decine di video hanno invece documentato queste violazioni dei diritti umani e moltissime testimonianze le hanno confermate.

Le stragi di palestinesi in attesa del cibo
Un medico straniero volontario al “Nasser Hospital” di Khan Younis aveva riferito alla RSI di aver estratto da un palestinese ferito proiettili “compatibili con quelli usati dall’esercito di Israele” già il 1° giugno, in una delle primissime stragi di civili presso un sito di distribuzione della GHF.
A luglio avevano poi fatto il giro del mondo le dichiarazioni di Anthony Aguilar, ex-ufficiale delle forze speciali statunitensi ed ex-dipendente della società che forniva il personale di sicurezza alla GHF: mostrando video girati col suo cellulare, aveva denunciato l’uso della forza da parte dei contractor americani contro i civili palestinesi, oltre che da parte dell’esercito israeliano.
Accuse rilanciate anche nell’intervista alla RSI per l’inchiesta di Falò “Gaza, la trappola degli aiuti” (in onda il 7 ottobre scorso):
Gaza, la trappola degli aiuti
Falò 07.10.2025, 20:50
Nello stesso servizio televisivo, Chapin Fay - portavoce della GHF -aveva respinto le accuse dell’ex-dipendente whistleblower e ci aveva negato un’intervista di persona limitandosi a un collegamento zoom da un hotel di Tel Aviv. Lo avevamo poi incontrato il 10 ottobre proprio nel quartier generale operativo della GHF, prima di entrare insieme – su un veicolo blindato – all’interno della Striscia di Gaza.
La RSI dentro la striscia di gaza
Nei pressi di Rafah, per la RSI – unica emittente televisiva internazionale ad aver avuto questo accesso – abbiamo documentato con il collega Massimo Piccoli la distribuzione di cibo della GHF riservata alle donne. “Chiediamo libertà, felicità e una scuola dove studiare” mi aveva detto un’adolescente in coda per un sacco di cipolle, distribuito quel giorno. Era lo stesso giorno dell’entrata in vigore del cessate-il-fuoco imposto da Trump a Netanyahu. All’orizzonte avevamo visto ancora colonne di fumo provocate dalle bombe israeliane. “Non ho futuro, con l’accordo di pace non cambierà nulla perché ci vorranno anni per ricostruire le nostre case e le nostre vite” mi aveva detto un dipendente palestinese della GHF. Nel sito di Rafah, avevo visto una settantina di palestinesi con pettorine arancioni: uomini e donne impegnati a gestire l’afflusso dei civili durante la distribuzione di cibo.
Malgrado le operazioni della GHF siano terminate a metà ottobre, il suo personale palestinese è stato licenziato solo la scorsa settimana.

Il reportage da Gaza di Emiliano Bos
Telegiornale 10.10.2025, 20:00
“Noi meglio delle Nazioni Unite”
Nelle conversazioni con i responsabili della GHF, mi è stato più volte ribadito che l’ONU non era in grado di garantire un’efficace gestione dell’assistenza umanitaria.
“Abbiamo avuto successo nel mostrare che esiste un modo migliore per distribuire gli aiuti” ha dichiarato il direttore esecutivo della GHF John Acree nel comunicato.
Senza dubbio il sistema delle Nazioni Unite presentava carenze di efficacia e criticità significative, a cui si aggiungeva il tentativo di Hamas di accaparrarsi le derrate alimentari e di gestire l’ingresso di quanto entrava nella Striscia, già prima del conflitto ma soprattutto durante questi due anni. I camion di aiuti sono stati regolarmente assaltati da Hamas, da altri gruppi e da bande armate locali che hanno controllato parte dell’assistenza umanitaria e in parte l’hanno rimessa in vendita sul mercato locale garantendosi enormi introiti. Ma mai si erano verificati in passato episodi così gravi con morti e feriti durante le distribuzioni di cibo.
Lo avevo contattato lo scorso giugno, dopo le prime stragi di civili palestinesi durante la distribuzione di cibo. Ma si era trincerato dietro un imbarazzato silenzio: “Non abbiamo dichiarazioni né informazioni da rilasciare al momento”. Dopo poco più di una settimana di attività della GHF il bilancio era già di 102 morti e quasi 500 feriti: “Non rilasciamo interviste in questo momento”, mi disse allora John Acree. In queste ore – attraverso il comunicato ufficiale – il direttore della GHF afferma: “Abbiamo costruito un nuovo modello che ha funzionato, ha salvato vite e restituito dignità ai civili di Gaza”.
I fatti – nei sei mesi di operazioni della GHF - raccontano una realtà diametralmente opposta.
Non solo. Ma già lo scorso luglio, 170 ONG internazionali avevano chiesto di sospendere le attività della GHF: “I palestinesi a Gaza si trovano di fronte a una scelta impossibile: soffrire la fame o rischiare di essere uccisi mentre cercano disperatamente del cibo per le proprie famiglie”. Un mese dopo, un gruppo di esperti ONU aveva rivolto un appello per l’immediato smantellamento della GHF, accusata di “sfruttare l’assistenza umanitaria per coprire l’agenda militare e politica di Israele e Stati Uniti”.

La GHF? Per l’ONU “un abominio”
L’acronimo GHF era diventato sinonimo di proteste anche in Israele: sotto il lussuoso hotel dove hanno alloggiato i dirigenti della “Fondazione” in questi mesi lungo la spiaggia di Tel Aviv, avevamo visto decine di attivisti israeliani denunciare le uccisioni di civili palestinesi in cerca di aiuti umanitari.
Adesso, nel comunicato finale, la GHF si dichiara pronta a “ricostituirsi nel caso in cui vengano individuati nuovi bisogni umanitari”.
Per molti invece, la fine delle operazioni conclude una parentesi senza precedenti nella storia recente dell’assistenza umanitaria in zone di crisi. Nella Striscia di Gaza, per mesi, sono entrati i contractor USA della GHF. Ma non ha potuto fare ingresso il personale internazionale dell’agenzia ONU “UNRWA”, presente nella Striscia dal 1967. Non solo, ma al suo direttore – lo svizzero Philippe Lazzarini – Israele da ormai un anno e mezzo impedisce persino di entrare nel proprio territorio e neppure a Gaza.
Incontrato un paio di mesi fa nella sede UNRWA di Amman, in Giordania, Lazzarini aveva definito la GHF “un abominio” e “una trappola mortale”. Per la prima volta, ha detto ai microfoni RSI, “abbiamo visto civili alla disperata ricerca di cibo per salvare i propri familiari, uccisi come in una caccia all’uomo gratuita”.

Gaza, tregua a rischio
Telegiornale 23.11.2025, 12:30







