Xi Jinping e Donald Trump si sono parlati di nuovo, meno di un mese dopo il vertice in Corea del Sud. A Busan, i presidenti di Cina e Stati Uniti avevano raggiunto un accordo per la tregua di un anno nella guerra commerciale, ma il colloquio di lunedì 24 novembre è per certi versi ancora più significativo. Non solo perché avviene dopo così poche settimane dal loro faccia a faccia programmato di fine ottobre, ma anche perché ci si trova a un crocevia forse decisivo per gli equilibri globali. Da una parte, la guerra in Ucraina e il piano di pace proposto dalla Casa Bianca dopo la riapertura del dialogo con la Russia. Dall’altra, la grave crisi diplomatica e commerciale in corso tra Cina e Giappone, scaturita da un cambio di postura pubblica di Tokyo su Taiwan.
Significativo che il colloquio sia avvenuto su richiesta di Pechino. Fattore inusuale, visto che sin qui nei precedenti scambi era sempre stata l’amministrazione Trump a dover insistere per mettere in agenda un confronto tra leader. La sensazione è che Xi, vista la disponibilità della Casa Bianca ad ascoltare (e per molti versi tutelare) la prospettiva di Vladimir Putin sul conflitto in Ucraina, abbia voluto a sua volta portare sul tavolo la questione di Taiwan.
La questione ucraina
Il tempismo non è certo casuale. Trump mira a firmare e ufficializzare definitivamente l’accordo commerciale con la Cina entro il Giorno del Ringraziamento, che cade giovedì, o al più tardi nelle prime settimane di dicembre. Non solo. La Casa Bianca cerca sostegno internazionale alla sua iniziativa sull’Ucraina, per cercare di mantenere la promessa elettorale di Trump sulla pace. Due obiettivi su cui serve anche il benestare di Pechino, probabilmente convinta di poter guadagnare qualcosa dal suo avvicinamento diplomatico a Washington.
“Le nostre relazioni sono migliorate e possiamo dare un ulteriore slancio positivo”, ha detto Xi durante il colloquio, lasciando intravedere quel rapporto privilegiato tra leader a cui Trump aspira. “La Cina sostiene gli sforzi per la pace in Ucraina e auspica quanto prima un accordo di pace equo, duraturo e vincolante”, ha detto Xi, apparentemente a sostegno dell’iniziativa del presidente statunitense. Il piano fornisce d’altronde ampie garanzie alla Russia, come desiderato da Pechino, che da sempre chiede di tutelare le “legittime preoccupazioni di sicurezza” di Mosca.
In cambio, Xi chiede però un maggiore spazio di manovra su Taiwan. Il dossier era rimasto totalmente inevaso durante l’incontro di Busan, stavolta è stato il fulcro del colloquio, quantomeno da parte cinese. “Il ritorno di Taipei alla Cina è un pilastro dell’ordine internazionale del dopoguerra” ha detto Xi a Trump, a cui ha intimato in modo mai così esplicito di salvaguardare i risultati di quella che ha definito “lotta comune contro fascismo e militarismo di 80 anni fa”.
Il messaggio è certamente diretto a Washington, dopo che nei giorni scorsi il Pentagono ha annunciato due potenziali vendite di armi per circa un miliardo di dollari all’isola. Allo stesso tempo, Xi ritiene che Trump possa rivelarsi più malleabile del previsto su Taipei. In estate, la Casa Bianca ha d’altronde negato un transito a New York al presidente taiwanese Lai Ching-te e ha congelato un pacchetto da 400 milioni di dollari di aiuti militari all’isola, contro i cui prodotti ha imposto dazi del 20%.
Messaggio a Tokyo
Ma il destinatario implicito del messaggio di Xi è anche il Giappone, dopo che la neo premier Sanae Takaichi ha abbandonato l’ambiguità strategica minacciando un intervento militare in caso di attacco cinese contro Taiwan. Tokyo ha peraltro appena confermato che dispiegherà dei missili a Yonaguni, isola che si trova ad appena 110 chilometri dalle coste taiwanesi: una mossa che sta alimentando le continue critiche e accuse di media e funzionari cinesi contro la leader nazionalista giapponese.
Al G20 dei giorni scorsi, il premier cinese Li Qiang ha rifiutato un incontro con Takaichi, a cui Pechino chiede una ritrattazione delle parole pronunciate il 7 novembre durante la sua prima interrogazione parlamentare alla Dieta giapponese. Rinunciare al dialogo con il vicino asiatico e rivolgersi direttamente a Trump è un segnale di forza da parte di Xi, convinto di poter ampliare la serpeggiante incertezza presso gli alleati asiatici degli Stati Uniti sulla stabilità del sostegno di Washington.
Nessuna rassicurazione a Taipei
Secondo il resoconto cinese, Trump ha detto di “comprendere l’importanza della questione di Taiwan per la Cina”. Non si tratta di un sostegno all’obiettivo della “riunificazione” cercata da Pechino, ma la mancanza di qualsivoglia rassicurazione a Taipei è inusuale in un colloquio ufficiale tra leader di USA e Cina.
Durante la notte svizzera, Trump ha parlato anche con Takaichi, ma nelle sue dichiarazioni pubbliche non ha dato alcuna rassicurazione nemmeno a Tokyo. Il presidente americano ha definito “ottima” la telefonata con Xi, entrando nel dettaglio solamente dei temi commerciali, facendo riferimento agli accordi sulla soia e al contrasto cinese al flusso dei materiali chimici utili alla produzione del fentanyl. Trump ha anche confermato che sarà in Cina il prossimo aprile, mentre Xi dovrebbe visitare gli USA nell’autunno 2026.
Un altro apparente passo verso la temporanea normalizzazione delle relazioni tra le due superpotenze, che già a Busan Trump ha ribattezzato G2. Una formula che significa un rapporto tra pari, ma anche una potenziale esclusione degli altri Paesi da decisioni con ricadute regionali e globali.





