Sono prevalentemente di sollievo le reazioni di economia e politica all’annuncio dell’accordo che riduce dal 39% al 15% i dazi sui prodotti svizzeri negli Stati Uniti. Proprio di “sospiro di sollievo” parla Swissmem, che raggruppa le imprese del settore tecnologico. La conclusione della vertenza è un elemento tutto sommato positivo, ma altri fattori negativi continuano a pesare sull’industria svizzera di esportazione, a cominciare dall’instabilità della situazione fino alla forza del franco rispetto alle altre divise europee e a quella giapponese. In terzo luogo, i dazi statunitensi del 50% su molti prodotti in acciaio restano in vigore.
Economiesuisse sottolinea che è stato eliminato un importante svantaggio commerciale rispetto all’UE. Ricorda però: anche se ridotte, le tariffe costituiscono comunque un aggravio per l’industria svizzera di esportazione. FH, l’associazione mantello dell’industria orologiera, ricorda che gli Stati Uniti rappresentano un quinto del mercato per il settore. L’accordo “ci dà un po’ più di sicurezza”, ha affermato il direttore Yves Brugman all’agenzia AWP. Soddisfazione, infine, anche da un comparto che era risparmiato dai dazi ma che ora ha la garanzia che - se dovessero essere introdotti anche sui suoi prodotti - non supererebbero il 15%: si tratta della farmaceutica. È il principale ramo esportatore verso gli Stati Uniti e, come ha ricordato la segretaria di Stato Helene Budliger Artieda in conferenza stampa - pur senza fare cifre - su di esso ricadrà la fetta più consistente degli investimenti per 200 miliardi che l’economia svizzera ha promesso di fare negli Stati Uniti.
Per quanto riguarda la politica, il centrodestra accoglie favorevolmente quanto negoziato a Washington. Interessanti i primi due comunicati giunti alle redazioni: quello dell’UDC, diffuso per errore con tre ore di anticipo sulla conferenza stampa, esalta il consigliere federale Guy Parmelin e coglie l’occasione per dire che questo accordo dimostra che non è necessario l’aggiornamento dei bilaterali con l’Unione europea, facendo una correlazione logica tra i due mercati, correlazione che aveva criticato quando a farla erano stati gli altri partiti nel momento della crisi dei dazi quest’estate. Il PLR da un lato dice che non è il momento di esultare, perché il 15% non è lo zero della situazione di partenza in aprile, ma fa comunque i complimenti al Consiglio federale. E qui traspare la rivalità fra Parmelin e la liberale-radicale Karin Keller-Sutter, che aveva gestito i negoziati fino alla nota telefonata con Trump del 31 luglio.
I Verdi liberali ribadiscono che il libero scambio, senza barriere commerciali, deve rimanere l’obiettivo a più lungo termine, con il ritorno a un mondo basato sulle regole, come ha scritto in un comunicato il presidente Jürg Grossen. E pure il Centro, per bocca del presidente Matthias Bregy, parla di “successo di tappa” di cui bisognerà valutare attentamente il prezzo.
Voci critiche, invece, da sinistra: il PS si dice scettico. Se a prima vista sembra ci sia da rallegrarsi, resta da chiarire nel dettaglio quali promesse siano state fatte alla Casa Bianca. Né gli esponenti dell’economia ricevuti nello Studio Ovale né il Consiglio federale hanno messo sul tavolo tutte le carte riguardo al prezzo che dovranno pagare la mano pubblica e la popolazione elvetica. Che gli esponenti dell’economia abbiano potuto parlamentare a nome della Svizzera è inoltre “inaccettabile”. Infine, Donald Trump resta “un partner inaffidabile”.
Parlano infine di “sottomissione” i Verdi, perché “si sacrifica l’agricoltura svizzera” spalancando le porte all’importazione di prodotti agricoli controversi (per esempio le carni bovine, anche se contingentate), a danno anche degli interessi dei consumatori.

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