Una persona omosessuale può essere espulsa verso un Paese dove l’omosessualità è perseguita? Non necessariamente, secondo il Tribunale federale, che ha pubblicato venerdì la sua sentenza sul caso di una donna tunisina. Le autorità vodesi ritenevano che la ricorrente avrebbe potuto fare ritorno nel Paese di origine e dissimulare lì il proprio orientamento sessuale. Ora dovranno invece riesaminare l’incarto.
La Tunisia punisce le relazioni con persone dello stesso sesso con pene detentive fino a tre anni. Con questo argomento la donna, arrivata inizialmente in Svizzera per raggiungere la compagna con cui aveva costituito un’unione domestica registrata, cercava di opporsi all’allontanamento decretato dopo la separazione della coppia. A rafforzare la convinzione delle autorità vodesi, il fatto che l’interessata avesse percepito - in parte indebitamente - l’aiuto sociale.
A loro avviso, quindi, la cittadina tunisina avrebbe potuto e dovuto rientrare in patria e condurre per esempio una vita anonima in una grande città come la capitale. Una soluzione che i giudici di Mon Repos hanno considerato inaccettabile: l’argomento addotto è stato ritenuto troppo sommario. È lecito attendersi che le persone omosessuali si attengano a certe regole sociali del loro Paese, come evitare di baciarsi in pubblico, ma pretendere che nascondano completamente il proprio orientamento equivale a negare una parte importante dell’identità. E quindi è contrario alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Essere omosessuale in un Paese che punisce l’omosessualità è quindi sufficiente per ottenere asilo? Non proprio. Per il TF bisogna giudicare caso per caso e anche la donna tunisina non è sicura di poter restare in Svizzera: il Cantone dovrà valutare nuovamente e in modo approfondito se davvero rischia di subire trattamenti inumani. Se è il caso, non potrà essere espulsa, altrimenti sì.





