Edizione straordinaria

Un’alba di sangue

Fuga dal carcere: la tragica evasione dalla Stampa del 3 ottobre 1992

  • 28 novembre 2023, 05:53
  • 8 dicembre 2023, 12:30
1:03:51

Edizione straordinaria: fuga dal carcere

Edizione straordinaria 27.11.2023, 21:10

  • RSI
Di: Lorenzo Buccella e Lorenzo Mammone 

Bastano solo pochi secondi e la strada si trasforma in un campo di battaglia. Colpi d’arma da fuoco che partono a raffica, pneumatici che stridono sull’asfalto, finestrini infranti, grida e sangue. E tutto questo lì, alle 6 di mattina, sulla strada d’uscita dal carcere della Stampa.

Un’alba di sangue

Solo pochi minuti prima, il silenzio era qualcosa di spettrale. Non soltanto per le brume autunnali, ma per il carico d’attesa che da ore si stava respirando. Fino a quando tutto prende il via. Di colpo due auto iniziano ad allontanarsi dal penitenziario cantonale, fendendo con i fari l’ultimo scorcio della notte. Ma gli occupanti non sanno che là fuori c’è chi li sta aspettando e ha previsto tutto. Appostati lungo la strada e sugli stabili, decine di poliziotti e agenti delle forze speciali. Il tentativo di bloccare la fuga con due semplici posti di blocco fallisce così come l’illusione della ritrovata libertà per otto detenuti si brucia nello spazio di nemmeno un chilometro.

Tutti sapevano ma alla fine si scatena l’inferno. Per la prima volta, un tentativo di evasione dal carcere si trasforma in una gigantesca sparatoria

Nella sparatoria che si scatena, muoiono due carcerati e un agente di custodia, complice dei banditi. Le pallottole feriscono altri due detenuti, mentre due agenti presi in ostaggio escono illesi dallo scontro a fuoco. Il bilancio è pesante, la dinamica forse ancor più allarmante tanto che in quel mattino del 3 ottobre del 1992 si consuma uno dei più gravi fatti di sangue mai avvenuto in Ticino. Quello che sui titoli dei giornali passerà come “La fuga dalla Stampa”.

Fuga dalla Stampa
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Sono passati più di 30 anni dalla morte dei detenuti Pietro Leandri e Anasco Villalon e dell’agente di custodia Michele Andreazza. Tre morti, forse, evitabili. Forse, se ci fosse stata maggiore collaborazione tra polizia e direzione del carcere. Forse, se le informazioni fossero circolate. Forse, se il comportamento della polizia non avesse dimostrato “gravi mancanze”, come scriveva il procuratore Luca Marcellini nella sua decisione di non luogo a procedere sull’operato delle forze dell’ordine. Tanti “forse” che possono essere capiti solo riavvolgendo il nastro di quella vicenda. La fuga era stata programmata da tempo e la polizia era stata informata con almeno due settimane di anticipo. E allora perché quella strage?

È Il 16 settembre 1992 quando la polizia riceve le prime indicazioni su una possibile evasione. Un informatore rivela che i detenuti hanno armi e possono contare sulla complicità di agenti di custodia. L’indomani aggiunge altri particolari: «Saranno in due o tre a scappare. Hanno tre pistole e due granate. Gli agenti di custodia che li aiutano sono Michele Andreazza e un capo, con una o due righe». La polizia prende sul serio l’informazione, ma non avverte la direzione del carcere. Gli eventi si concatenano inesorabilmente e prefigurano la sciagura. Il 21 settembre un detenuto (Pietro Leandri) fa una sfuriata e non consente la perquisizione della sua cella. Cinque giorni dopo l’agente di turno alla sezione B (quella dove prenderà avvio l’evasione) annota: “quelli del secondo piano mi sembrano troppo vestiti. Attenzione al giro interno”.

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La polizia, che già sta indagando, non viene informata. La direzione del carcere però decide di alzare il livello di guardia e il 22 settembre espone un avviso: «Attenzione, esiste un grande pericolo di evasione». I controlli vengono aumentati e le perquisizioni intensificate, ma le armi non si trovano. L‘inchiesta chiarirà che in quei giorni circolavano liberamente all’interno del carcere, introdotte dal secondino responsabile del laboratorio di lavoro. Silenzi, sfiducia tra organi dello Stato cui si aggiungono le strane lacune nelle indagini. Per non destare sospetti la polizia evita di perquisire il carcere e di interrogare i colleghi di Andreazza; si limita a tenerlo sotto controllo. E aspetta.

Nessun sospetto neanche quando Andreazza paga sull’unghia, coi soldi ricevuti a Como per la sua collusione, la Suzuki poi usata per l’evasione. Ancora una volta la polizia non fa nulla. Si decide di aspettare e di arrestare i fuggiaschi all’esterno del carcere, in flagranza di reato, tutti assieme.

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Ma le cose non vanno come previsto. E rieccoci a quel 3 ottobre 1992, 6 del mattino. Per sbarrare la strada ai fuggitivi, con tanto di pistole e granate, vengono organizzati due posti di blocco. Ma non bastano. Un’auto si ferma, l’altra tenta una improbabile fuga. E allora per sventare l’evasione dalla Stampa bisogna sparare: 60-70 colpi che crivellano lamiere e corpi. Bilancio: tre morti. Tra loro anche l’agente di custodia Michele Andreazza. L’inchiesta chiarirà che per la sua collaborazione gli era stata promessa una ricompensa di 30’000 franchi.

Di fronte a quella carneficina l’opinione pubblica si divide: chi si schiera a fianco della Polizia e chi parla di intervento eccessivo e di violazione del principio della proporzionalità. Eppure, le inchieste penali e amministrative assolvono politici e polizia. Un vuoto di responsabilità che trent’anni dopo lascia ancora sul campo interrogativi e perplessità, oltre a rappresentare una delle pagine più buie della storia di questo cantone.

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