L’ultima volta che l’ho visto difendere con passione la causa biancoblù è stata alla famosa assemblea di Giornico del maggio 2011. Erano già passati quasi vent’anni dalla sua entrata - un po’ in sordina - nel comitato (i CdA nell’hockey non c’erano ancora), dove l’eminenza grigia che reggeva le finanze del club era Luciano Bossi.
Anche Emilio - della stirpe degli Juri, famiglia tra le più importanti di Ambrì e del sodalizio - si poteva considerare bellinzonese (dirigeva tutto dal suo “regno” di Giubiasco, aveva anche giocato nei GdT), anche lui divenne l’uomo forte del club. Ma, a differenza di Bossi, finì con l’assumere la presidenza. E lasciò il segno. Per la sua figura e per il suo operato. Fisico possente, di chi ha portato sulle spalle i quarti di bue, voce profonda, baritonale, presenza forte, modi decisi, un cocktail che sembrava perfetto di passione, ambizione, saggezza e - come ama scrivere da anni un noto collega svizzerotedesco - furbizia contadina.
Tutta la Svizzera hockeistica si chiedeva cosa stesse succedendo, nella primavera/estate del ’97, quando improvvisamente l’Ambrì annunciò gli ingaggi di diversi giocatori di grido. Questioni di budget, certo, ma anche di relazioni e di cavilli contrattuali che permettevano a certi “big” di liberarsi. Cavilli sfuggiti a molti ma non a lui.
Un anno, per una svista burocratica, il giovane e promettentissimo Luca Cereda rischiò di non poter giocare i playoff. Mentre qualcuno si scandalizzava per l’errore, il presidente aveva già trovato la soluzione. La sua profonda conoscenza dei regolamenti sui trasferimenti mi ha sempre impressionato. In Lega era ascoltato e rispettato, e con lui l’Ambrì.
Passava senza difficoltà dal dialetto leventinese all’inglese, dal francese allo schwiizzerdütsch. Fu un presidente davvero carismatico, che teneva saldamente le redini del club, del quale conosceva tutto e tutti. Della Valascia poteva parlare di ogni singolo bullone. Aveva il polso della squadra grazie a relazioni privilegiate con gli uomini chiave dello spogliatoio, ma poteva spendere mezz’ora per rispondere ad un tifoso su un dettaglio. In questa settimana di lutti biancoblù avrebbe ricordato la Dina, la supertifosa di Dalpe, come Edi Inderbitzi, per cinquant’anni cantore delle gesta dei leventinesi nel Canton Uri.
Tanto lavoro, tante sigarette, un impegno immenso. Furono anni fenomenali, quelli di Emilio Juri, per l’HCAP. Un Ambrì che vinceva, divertiva e dava spettacolo, pur restando molto ticinese. Un Ambrì bellissimo ed esaltante. Record di punti, trionfi europei, il titolo svizzero - che lui probabilmente avrebbe meritato più di tutti - accarezzato e sfuggito, più nel ’98 che l’anno dopo, nella finale con il Lugano. Al timone Larry Huras - che a lui deve il suo rilancio - poi Rostislav Cada, passando da Pierre Pagé.
Non aveva paura dei grandi nomi, delle grandi sfide, dei grandi salari. L’accumularsi di circostanze sfavorevoli e una grande sfortuna gli rovinarono tutto sul più bello. Altrimenti quel pesce d’aprile che confezionammo assieme nel ’99 (il progetto della pista nella roccia, la nuova Valascia in un ex hangar militare nel cuore della montagna, sul modello della patinoire olimpica di Lillehammer) forse oggi starebbe per diventare realtà.