Pensare alla mitologia, oggi, sembra essere qualcosa di estraneo alla nostra epoca. I grandi miti, trasmessi dall’eredità classica, sembrano avere sempre meno utilità nella formazione dell’individuo, al contrario della funzione educativa che essi ricoprivano in Antichità. Il mondo si è evoluto e le forme di comunicazione con esso, e ciò ha causato un diverso tipo di fruizione del patrimonio culturale umano. L’avvento del cinema ha permesso, però, di recuperare quella dimensione che era propria del teatro antico: un incontro sacro con ciò che definisce la nostra natura. In una fortunata formula pasoliniana, il cinema di poesia.
In questo senso, Pier Paolo Pasolini e Federico Fellini, per citare i più conosciuti, sono stati maestri. Che Sorrentino, con il suo cinema, abbia raccolto il testimone di questa tradizione? Il suo ultimo film, Partenope, può essere considerato la rievocazione di un mito nella nostra contemporaneità? Per rispondere a questa domanda, ci confronteremo con i temi che più animano la poetica cinematografica di Federico Fellini: la donna, la voce, la natura, l’acqua e il mito, che si risolvono nella figura mitica della sirena che Paolo Sorrentino ha richiamato nell’ultima sua fatica. Una chiave di lettura che può essere illuminante per spingersi oltre la superficie e intravedere il messaggio profondo che il cinema di poesia ci offre.
Elisabetta Moro, professoressa di Antropologia sociale presso l’Università di Napoli, ai microfoni di Alphaville su Rete due, in riferimento all’ultimo film di Paolo Sorrentino, ha esordito ricordando lo stretto legame che intercorre tra cinema e mito, molto suggestivo per approfondire riflessioni che indagano il tema della voce nella mitologia e nel cinema:
«I miei scritti danno l’idea che io sia ossessionata dalle sirene. In realtà è nato tutto dal fatto che io mi sono trasferita a Napoli. Ho incontrato subito questo mito straordinario della fondatrice della città che Sorrentino racconta in una maniera magnifica, perché solo il cinema riesce a restituire il mito, poiché esso condivide lo stesso meccanismo: non racconta storie nei dettagli, ma racconta flash di memoria. Sorrentino in questo è maestro. Chi avrà modo di vedere il film scoprirà che questa Partenope è appunto la seduzione, la bellezza, la vita, l’incantamento. È un essere anche un po’ indifferente alle cose, come lo erano le sirene antiche, le sirene di Omero per esempio. Le sirene sono anche degli esseri insensibili. Devono semplicemente cantare, questo è il loro compito mitico. Non hanno intenzione di fare del male. Il loro canto deve incantare a tal punto che i marinai si fermino e smettano di pensare alla loro vita, alla loro sopravvivenza. Non mangiano più, non pensano più, si innamorano di loro e così muoiono sui loro scogli. Ma le sirene sono incolpevoli. Per comprendere la figura della sirena bisogna ricordare che il canto nel mondo antico era la parola ispirata, era la verità, era la poesia. Si chiamava “carmen”, il canto, ed era quindi una sorta di preghiera, di verbo. Per questo motivo dobbiamo pensare alle sirene come degli esseri sapienziali capaci di profezia, non come delle sciocche seduttrici»
Che il cinema di Sorrentino lasci spazio a interpretazioni che vanno oltre il senso più superficiale delle sue pellicole è un dato di fatto che ogni appassionato riconosce. Nonostante la ricezione divisiva della sua più recente pellicola, Partenope, possiamo definire Sorrentino uno degli ultimi eredi del cosiddetto cinema di poesia cui grande maestro, in Italia, fu Federico Fellini. L’espressione “cinema di poesia” è stata coniata da Pier Paolo Pasolini per indicare quei film che formulano domande universali ed esistenziali non più attraverso parole, bensì attraverso immagini. Fu il poeta italiano Andrea Zanzotto a classificare il cinema di Federico Fellini come “cinema di poesia”, proprio per la costante ricerca filosofica che il celebre regista italiano intraprendeva nelle sue pellicole attraverso la tematizzazione di simboli, mitologemi, allegorie ed immagini.
Pier Paolo Pasolini e Federico Fellini
Zanzotto fu diretto testimone del processo creativo felliniano in occasione di diverse collaborazione, una su tutte il Casanova di Federico Fellini (1976). Andrea Zanzotto fu incaricato di comporre una raccolta di canti in dialetto veneziano che accompagnassero la narrazione cinematografica. Nacque così la raccolta poetica Filò, parola che allude alle cantilene che le anziane intonavano attorno al focolare nell’ambito della vita contadina. Sono tutte poesie create per essere recitate, cantate e nel film assumono la forma di una vera e propria liturgia. Già nel racconto incompiuto Il viaggio di G. Mastorna (1965), nel cortometraggio Toby Dummit (1968) e nel film La città delle donne (1980), così come nell’intera poetica di Fellini, il tema principale riguarda, come vedremo, il ritrovamento di un legame autentico con la natura, che il regista reputa perduto nella modernità (il vincolo sacro tra vita e morte, tra eros e thanatos).
Ecco che, nel Casanova, la prima scena mostra la perdita del legame universale e primordiale con la natura attraverso il tentativo fallito di far emergere dal Canal Grande di Venezia una gigantesca effige del capo della dea Luna: con la ricaduta nell’acqua, il mare diventa di plastica e l’enorme testa di donna, sprofondando sempre più giù, sancisce l’insanabile frattura del sacro legame tra uomo e natura che ha caratterizzato l’antichità. All’uomo moderno è data unicamente la possibilità di mettere in scena la perdita dell’antico, del vero, del divino, ed è proprio ciò che fa Fellini in questa sequenza iniziale. L’unica facoltà primordiale e divina rimasta alla modernità è quella del canto, e le cantilene in dialetto veneziano scritte da Zanzotto, che accompagnano la scena rituale, testimoniano l’indelebile traccia di quel sodalizio originario: la voce diventa dunque il simbolo della speranza di ristabilire il genuino rapporto dell’essere umano con il mondo. Venezia rappresenta dunque la città-mito, il teatro che permette a Fellini di mettere in rapporto il mito della donna con quello dell’acqua, con l’obiettivo di far toccare con mano la perdita dell’autenticità del reale e il conseguente sopravvento di una realtà finta e inautentica. Donna, voce, mito, acqua, sono tutti temi che si risolvono, non a caso, nella figura della sirena ed elementi simbolici onnipresenti nel cinema di Federico Fellini.
Il tentativo di sollevare l'immensa effige della dea Luna (Il Casanova di Federico Fellini)
Basti pensare, al di là del Casanova, al film E la nave va (1983), dove il tema della voce perduta è centrale e simboleggia nuovamente l’impossibilità dell’uomo moderno di nobilitarsi e recuperare la capacità di accogliere il divino, la verità, tradendo così la sua più intrinseca natura e condannandosi all’inumanità. La trama, infatti, ruota tutta attorno al funerale di una famosa cantante lirica, Edmea Tetua, la quale volle che le sue ceneri venissero gettate nell’Egeo. La celebrazione rituale, insomma, della perdita di quell’unico appiglio che la modernità aveva a disposizione per riscattare la sua condizione di decadenza e ristabilire il suo legame con la natura. Il canto, che per tutto il film ha rappresentato una costante, nel momento in cui le ceneri vengono disperse in mare lascia spazio a un inquietante mutismo: l’immagine potentissima, nel finale, di un rinoceronte ne sancisce la perdita e, allo stesso tempo, mostra che la natura, presenza più che ingombrante, non se ne andrà mai del tutto. All’essere umano non resta che avere il coraggio di guardarla finalmente negli occhi.
Il rinoceronte, simbolo dell'ineludibile natura (Fellini, E la nave va)
La voce della Luna (1990) è l’ultimo film di Fellini. Il titolo preannuncia l’importanza capitale di questa pellicola per la poetica cinematografica del regista italiano. Esso consacra la sua carriera e gli permette di concludere le riflessioni intorno alla voce e al mito che hanno segnato la sua vita intellettuale. Un giovanissimo Roberto Benigni cerca di recuperare la facoltà di dialogo con una divinità, la Luna, che, al contrario, ha le sembianze di un palloncino di plastica e che, a fine film, diventa un volto di donna che al posto di ispirare l’essere umano intona allegramente un annuncio pubblicitario. Tutto ciò è dovuto al tentativo dell’essere umano di sottomettere l’universo intero al suo volere: la modernità rappresenta proprio questo tentativo disperato di sottomissione e di sfruttamento della natura. Il film esce non per caso negli anni dell’allunaggio, momento storico in cui riflessioni del genere trovano il contesto ideale per essere espresse. L’essere umano si è spinto oltre, arrivando a toccare la dea Luna per dominarla attraverso la tecnologia e il progresso: nella pellicola, non è l’uomo che va sulla Luna, ma è la Luna che viene catturata per essere poi trascinata sul pianeta Terra in diretta televisiva. Il risultato della folle impresa è che la Luna ha perso tutte le sue sembianze divine ed ogni facoltà poetica, diventando parodicamente un patetico palloncino incandescente. Al suo posto, in cielo, rimane un vuoto incolmabile, riempito, se così si può dire, dalla vera cifra del moderno: la pubblicità.
Ultima scena del film, dove la Luna, con volto di donna, intona la parola "Pubblicità" (Fellini, La voce della Luna)
Dossier: il mito della sirena
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Dossier: il mito della sirena (1./5)
Alphaville 11.11.2024, 12:05
Dossier: il mito della sirena (2./5)
Alphaville 12.11.2024, 12:05
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