Società

Maranza: paura o pregiudizio?

Dalle periferie ai social, i maranza diventano simbolo di marginalità e bersaglio di paure collettive: un fenomeno che racconta più la società che i ragazzi stessi

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Di: Giulia Apollone  

I maranza fanno davvero paura, o è la paura stessa a raccontare più di loro? Dietro un termine che rimbalza tra social, meme e cronache quotidiane si nasconde molto più di un’estetica appariscente o di un linguaggio sguaiato. Il fenomeno maranza è lo specchio di un disagio adolescenziale che cerca visibilità, ma anche il bersaglio di pregiudizi che trasformano l’ironia in sospetto e il sospetto in stigma. È qui che si intrecciano identità in costruzione, dinamiche di marginalità e narrazioni tossiche che rischiano di alimentare nuove forme di esclusione e violenza.

Per capire meglio di cosa parliamo, basta guardare alla definizione proposta da Treccani: il maranza è «un giovane che fa parte di comitive o gruppi di strada chiassosi, caratterizzati da atteggiamenti smargiassi e sguaiati e con la tendenza ad attaccar briga, riconoscibili anche dal modo di vestire appariscente (con capi e accessori griffati, spesso contraffatti) e dal linguaggio volgare». A questo si aggiunge spesso un gusto musicale specifico, dominato da trap, drill e rap.

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L’estetica maranza - tute sportive, marchi esibiti, borselli, tagli di capelli studiati - è solo la parte più evidente di un universo che parla molte lingue: italiano, slang inglese, francesismi e arabismi convivono in un lessico che rimanda a storie di migrazioni, seconde generazioni e appartenenze ibride. Non si tratta però di un’etichetta etnica, ma di una sottocultura urbana nata spesso ai margini delle città, dove la necessità di essere visti si intreccia con l’assenza di spazi reali di espressione.

Il racconto mediatico ha spesso trasformato questo fenomeno in un oggetto di sospetto. Emblematico il caso del creator torinese Don Alì: un finto “raduno maranza” nel Sud Italia ha scatenato allarmismi, interventi istituzionali e indignazione online. Il giorno dell’evento, però, quasi nessuno si è presentato. Una performance che mostra quanto il confine tra gioco e minaccia sia fragile nell’ecosistema digitale contemporaneo. L’iperbole è la norma, e la viralità può trasformare una provocazione in emergenza sociale.

Il sociologo Federico Pilati lo chiama “razzismo algoritmico”: i contenuti prodotti dai giovani marginalizzati ottengono visibilità e monetizzazione proprio perché percepiti come dirompenti, ma questa stessa esposizione si trasforma in strumento di controllo quando oltrepassa la soglia della tolleranza pubblica. Secondo Nick Couldry,la logica della visibilità algoritmica spinge in alto ciò che appare “pericoloso” o “eccentrico”, creando un equilibrio artificiale tra inclusione mediatica ed esclusione sociale. In altre parole, ciò che nasce come espressione identitaria rischia di essere trasformato in spettacolo, e poi in bersaglio.

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Negli ultimi mesi sono emerse infatti alcune reazioni violente: gruppi sui social hanno lanciato appelli contro “maranza e magrebini”, legittimando la violenza come difesa del territorio. Tra questi, il collettivo “Articolo 52”, che strumentalizza in modo distorto il dovere costituzionale di difesa della patria per giustificare azioni da vigilantes. Dalle parole ai fatti, un video alla Darsena di Milano mostra un ragazzo straniero picchiato da un gruppo che lo accusa di furto. L’episodio rappresenta la drammatica conferma di come narrazioni tossiche possano rapidamente sfociare in brutali atti di giustizia sommaria. Paradossale è la logica di questi “punitori”, che scelgono di contrastare la violenza maranza con nuove forme di violenza, spesso intrise di razzismo.

Anche nella Svizzera italiana il tema si è imposto nel dibattito pubblico in seguito a episodi di violenza e microcriminalità nel Luganese. Le cronache riportano risse e furti che coinvolgono gruppi di giovani, spesso minorenni. L’UDC ha chiesto più controlli e presenza delle forze dell’ordine per scongiurare episodi di “giustizia fai da te”. Il dibattito si intreccia con le tensioni transfrontaliere, poiché molti ragazzi provengono dal Varesotto: una circostanza che alimenta paure, discorsi securitari e preconcetti.

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Le nuove forme della violenza giovanile (8./10)

Alphaville: le serie 19.11.2025, 12:30

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Il fenomeno in sé non è nuovo: ogni epoca ha avuto i suoi adolescenti “troppo rumorosi”, dai teddy boys ai punk, fino ai tamarri. La differenza oggi è l’amplificazione algoritmica, che rende visibile tutto e subito, distorcendo proporzioni e percezioni. E che tende a radicalizzare ciò che nasce come espressione urbana trasversale.

I maranza sono allora semplici ribelli senza causa o il segnale di un malessere collettivo? Per capirli non servono moralismi: basta riconoscere il disagio che li attraversa ed evitare allarmismi che alimentano stereotipi e razzismo. La maggior parte non è violenta: sono ragazzi con riferimenti culturali precisi, un’estetica riconoscibile e un modo di esprimersi che non coincide automaticamente con l’aggressività. Il rischio è associare quell’immagine alla violenza e trasformarla in pregiudizio. Non sono un fenomeno alieno, ma una delle tante forme di espressione - e talvolta di disagio - giovanile, che continuerà a esistere finché non ci saranno reali strategie di inclusione. Il fenomeno non va ignorato, ma nemmeno affrontato con altre forme di violenza o discriminazione.

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L’urgenza di relazioni autentiche e la complessità dei giovani (10./10)

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