Entrare nella stanza di One’s Own Room Inside Kabul significa varcare una soglia invisibile. Ogni gesto che compiamo prima dello spettacolo è quasi atto politico ma è soprattutto rispetto. Le scarpe si lasciano fuori, si è ospiti in una casa. Dentro, il tempo è sospeso: due file di panche rosse foderate in velluto, un tappeto persiano, le pareti bianche dove in stile carta da parati file e file di donne stilizzate si tengono per mano (avete presente le ghirlande di carta che si facevano da piccoli?). Al centro, stoviglie di ceramica create a mano, su un tavolo apparecchiato per 40 persone per un pasto che non verrà mai. Il pubblico siede in silenzio, mentre la porta si chiude lentamente alle sue spalle.
È così che inizia la performance di Kubra Khademi e Caroline Gillet, che ha debuttato quest’estate al Festival di Avignone e dopo l’indelebile – per chi vi ha assistito - passaggio al Festival Internazionale del Teatro di Lugano, a novembre tornerà in Francia al Théâtre de la Concorde di Parigi, all’interno della programmazione del Festival d’Automne. Un’installazione immersiva che evoca attraverso la rappresentazione simbolica, permette l’ascolto di una, molte, vite senza mostrarle (sottolineando ancora una volta l’importanza dell’audio nelle narrazioni contemporanee), non spiega ma permette allo spettatore di sentire, con il proprio corpo, la reclusione delle donne afghane sotto il regime dei talebani in un crescendo di privazioni.
Da agosto 2021, data della presa del potere da parte dei talebani, le donne sono state private di tutti i diritti, ridotte a ombre: vietato parlare tra loro, cantare, istruirsi, circolare per strada, essere viste. Caroline Gillet, giornalista e autrice radiofonica di Radio France, ha da allora iniziato una corrispondenza con Raha, giovane donna ventunenne di Kabul. Più di 300 i messaggi vocali sulla sua vita quotidiana, in cui racconta la sua vita e quella delle sorelline, il suo restare e resistere. Da quelle registrazioni è nato prima un podcast, poi una serie animata molto raffinata, e infine questo progetto scenico, realizzato con l’artista attivista Kubra Khademi.
L’idea di quest’opera era semplice e radicale: trasformare la testimonianza in esperienza sensoriale. Invece di accumulare immagini di dolore, le due autrici costruiscono un ambiente sonoro e visivo che ricrea la densità del quotidiano. I rumori delle stoviglie, il fruscio di un vestito, la voce di una bambina che gioca, l’aspirapolvere, un canto che si interrompe, ma anche spari lontani e pioggia battente sul davanzale, prendono vita nella stanza e ci portano lontano tenendoci al contempo inchiodati lì. Ci fanno sentire il freddo di giorni e notti senza elettricità, al buio e all’ascolto. «Questa installazione è anche un nuovo modo di incontrarsi, di sentirsi vicini, di ricreare vicinanza con queste donne e il loro Paese».
Ascoltiamo, noi, seduti dentro questo salotto, mentre le proiezioni sulle finestre che si aprono al mondo mostrano ciò che Raha non può più vedere: le strade di Kabul, gli aquiloni, i piccioni, la gente, le manifestazioni. Il risultato è un corto circuito emotivo e politico. La performance, imponendo l’ascolto di una narrazione, richiede molta presenza. Non solo, mentre sentiamo voci e suoni dipanarsi, siamo messi di fronte a quella parte di pubblico che guarda le finestre alle nostre spalle. Nei loro volti scorgiamo il nostro stesso intenso dolore, a volte l’imbarazzo del privilegio, rabbia e incredulità. Siamo estremamente vulnerabili poi, perché come noi vediamo chi abbiamo in faccia, così sappiamo e sentiamo di essere guardati da loro.
Sulla scena Kubra Khademi, sulla soglia, ricama concentrata per tutta la durata dello spettacolo, forte e magnetica nel suo caldo e ripetuto gesto, quasi di cura e amore. Sarà lei a decretare la fine della performance alzandosi in piedi e uscendo scalza da quella scena che abbiamo condiviso, uno spazio che trasuda potenza, eleganza e profondità di un mondo femminile che vive e resiste anche sotto assedio.
«Il salotto - ha raccontato Khademi, è al tempo stesso il cuore della vita afghana e la prigione in cui le donne oggi sono rinchiuse». Da qui nasce la forza simbolica di One’s Own Room Inside Kabul: il luogo domestico diventa una soglia di resistenza, uno spazio dove l’ospitalità convive con l’assenza. Le ceramiche disegnate da Khademi che poggiano a terra (piatti e brocche dalle linee instabili, decorate con figure e simboli femminili di ogni tipo, da Diana a lingue rosse) costruiscono un racconto visivo parallelo, un archivio che grida silenzioso.
Nata a Kabul nel 1989, l’artista ha fatto dell’arte un gesto di sopravvivenza. Celebre la sua performance del 2015, Armor, che le cambiò la vita. Consisteva in una camminata di 8 minuti con addosso un’armatura di metallo costruita da sé che esagerava smisuratamente seno e glutei, simbolo della violenza sessuale e del controllo patriarcale sui corpi femminili. Una performance necessaria – lei ne parla oggi con naturalezza estrema, come di atti normalmente conseguenti alla situazione in cui si vive, che però la costrinse prima a nascondersi e poi alla fuga in Francia, dove oggi vive e lavora come artista. «Qui lavoro come voglio e il mio lavoro mi dà sostentamento. In Afghanistan una vita come la mia è inimmaginabile».
Khademi ha trasformato l’esilio in linguaggio. A Parigi ha trovato rifugio nell’Atelier des artistes en exil, dove ha continuato a disegnare e modellare ceramiche: corpi femminili liberi, ironici, eroici. Donne nude a cavallo, amazzoni che brandiscono archi o sguardi, come se la pittura potesse restituire ciò che la realtà nega. Ma l’artista non ha mai smesso di misurarsi con la propria ferita. «Sono stata uccisa mille volte nel mio Paese - ha detto, in mille modi diversi».
In One’s Own Room Inside Kabul, Khademi non espone più il proprio corpo: lo trasforma in spazio. La stanza diventa una nuova armatura, non più metallica ma simbolica. Se Armor era il suo personale grido di denuncia, questa performance è il respiro di molte donne, un momento collettivo per stare e non dimenticare.
La vita di Raha alla quale qui assistiamo - dall’abbandono dell’università, ai corsi online, al doversi nascondere, e le immagini che vediamo al di là di immaginarie finestre (girate da una troupe anonima di Kabul), creano prossimità verso un mondo che ci sembrava forse lontano. Metonimia di un paese devastato. Tra il documentario, la testimonianza e la poesia, uno spazio sospeso, una forma fragile e potente di empatia.
In un’epoca in cui l’attenzione si disperde tra flussi di immagini, la scelta di Khademi e Gillet è quasi sovversiva: un’ora di silenzio, sguardi, immersione e ascolto. Aspettiamo e speriamo come Raha, che all’inizio non può credere che la presa di potere dei talebani riesca davvero a far breccia in una società più evoluta rispetto a vent’anni prima, ma che poi vede togliersi persino il diritto di cantare tra le mura domestiche. Aspettiamo e perdiamo con lei la speranza. Per questo motivo al termine della rappresentazione è per tutti molto difficile applaudire: l’umanità, la sua assenza, ci ha lasciati sgomenti.
Cartoline dai Sentieri Selvaggi
Laser 08.10.2025, 09:00
Contenuto audio
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