Nei primi del 2000, a Roma, la scena teatrale indipendente si anima di iniziative che vedono operare gruppi o singoli artisti all’interno di contesti legati alle occupazioni o agli spazi off. Per quanto riguarda la danza già a metà anni ’90 in seguito agli impulsi di figure quali Giorgio Salerno un rinnovato interesse per il butoh prende piede. In particolare è attorno al Teatro Furio Camillo che tutto questo si gioca, dove, cresciuti in seno all’attività del danzatore, didatta e cineasta Masaki Iwana (Tokyo, 1945 – Réveillon, 2020), i performer del collettivo Lios animano il festival Trasform’azioni, una rassegna annuale che vede alternarsi sul palco sia artisti giapponesi che italiani.
Fenomeno sviluppatosi, appunto, in Giappone nell’immediato dopoguerra attraverso le figure di Tatsumi Hijikata (Akita, 1928 – Tokyo, 1986) e Kazuo Ohno (Hakodate, 1906 – Yokohama, 2010), il butoh non è uno stile né un codice, ma piuttosto un modo di intendere la danza. In origine era legato a forme di rivolta culturale che traevano spunto dalle radici contadine dei protagonisti del movimento (penso, in particolare, al caso di Hijikata). Dopodiché esso prese più vie, arrivando, grazie a una sorta di migrazione artistica, anche in Europa, dove lasciò un segno decisivo nel mondo della performance. Ciò detto, fra le protagoniste italiane di questa particolarissima pratica, a distanza di decenni da quanto descritto, spicca oggi il nome di Alessandra Cristiani, danzatrice che ha fatto del butoh un trampolino di lancio verso personali territori espressivi.
Autrice soprattutto di spettacoli che l’hanno vista agire scenicamente su tempi prolungatissimi in ostinata tensione o, in altre fasi della sua ricerca, in estrema dinamica dentro a montaggi di azioni e immagini composite – accompagnata da musiche dal vivo o realizzate ad hoc – Alessandra Cristiani ha creato un ricco repertorio nel quale, a più riprese, arte visiva e poesia si intersecano. Nella “filosofia” butoh una certa idea di origine, di forma precedente alle forme e, di conseguenza, alla rappresentazione, è molto viva, ed è proprio a partire da una domanda attorno alla genesi, ma specificatamente del suo percorso, che Alessandra racconta come nacque, in lei, il desiderio di danzare.
«Quella dell’arte è una “chiamata” umana che in fondo ci riguarda tutti, anche da semplici spettatori o fruitori. È un po’ come un risveglio religioso, che poi bisogna essere bravi a trasformare in una prassi e in una politica. È importante ricordarlo: non stiamo facendo qualcosa di futile, ma di profondamente radicato nell’essere umano. Personalmente ricordo molto bene quando in me questo sentimento si è risvegliato: era legato a come desideravo sentirmi nel corpo. Era come un desiderio di integrità, nato da una sorta di disagio verso me stessa. Sentivo come una strana distanza fra i miei gesti e qualcosa di più profondo. Per contrastare questa sensazione ho sempre cercato di mettermi in moto fisicamente ed è stato grazie all’incontro con le pratiche del cosiddetto “terzo teatro” che sono letteralmente rinata».
Masaki Iwana, immagine del film Vermilion Souls, 2008
Se la prima formazione di Alessandra Cristiani è avvenuta dentro al training di matrice odiniana, dove, fra estremi di rigore e tenuta, ha avuto conferma di quanto fosse il corpo stesso il centro di interesse del suo lavoro, va detto che, successivamente, è stato grazie all’incontro col già citato Iwana che il suo cammino si è ulteriormente definito, aprendo il suo sguardo su orizzonti inediti.
«La prima volta che sono entrata in contatto con Masaki è stato attraverso un laboratorio consigliatomi dal collega Stefano Taiuti e dalla studiosa-giornalista Maria Pia D’Orazi. Ancora non sapevo niente di lui e, tra l’altro, fino all’ultimo pensai che, con questo nome (Iwana), si trattasse di una donna. Entrata in sala lo vidi di spalle, coi suoi lunghissimi capelli, e solo quando si girò capii di essermi sbagliata. Dopodiché cominciò il lavoro e, presto, ebbi la fortuna di essere “presa di mira”. Vale a dire che Masaki cominciò a insistere sulla mia persona, come se percepisse che in me c’era qualcosa che chiedeva di emergere. Fu un momento spartiacque: fino a quel momento ero stata un’attrice ed ora, improvvisamente, sentivo di volermi dirigere verso la danza, la mia danza. Iniziai a seguire assiduamente i workshop di Masaki sia a Roma che in Normandia, dove viveva e aveva il suo atelier: la magica Maison du Butoh Blanc, spazio di studio e ricerca tuttora attivo grazie a sua moglie, la danzatrice Moeno Wakamatsu. Lì ho avuto il privilegio di essere incoraggiata, ma anche radicalmente criticata. Tutto questo mi ha portato a insistere: scrissi una tesi di laurea sul butoh di Masaki Iwana e con alcuni di quelli che, allora, erano gli altri partecipanti dei workshop, fondammo il collettivo Lios, un gruppo dal quale prese il via una regolare pratica di performances, rassegne e incontri con artisti quali Akira Kasai, Ko Murobushi, Yoko Muronoi e moltissimi altri ancora».

Nel suo percorso Alessandra Cristiani ha approfondito la dimensione solitaria della scena, con un frequente utilizzo del nudo, dando vita a quelli che sono, ormai, dei suoi assoli storici, come ad esempio Langelo (2007) – performance da lei danzata per moltissimi anni nei contesti più disparati – o La fisica dell’anima, trittico ispirato all’opera di Francesca Stern Woodman col quale, nel 2008, si distingue per il sostegno nella classifica di “Scenari indipendenti”. Fra le moltissime creazioni, particolarmente importanti sono le trilogie dedicate alla questione del corpo nel mondo dell’arte. Fra queste si ricordano i pezzi su Egon Shiele, Francis Bacon e August Rodin – Corpus delicti (2019), Nucleo (2021) e Naturans (2022) – coi quali ha indagato l’universo dei tre artisti a partire da un approccio istintivo ma meditato, sulla base di impressioni stratificate nel corso del tempo. In lizza da miglior performer per i premi Ubu 2018 negli spettacoli Clorofilla (2018) e Euforia (Habillé d’eau, 2017), Alessandra Cristiani è anche danzatrice stabile nella compagnia Habillé d’eau, vincitrice, proprio in quello stesso anno, del medesimo riconoscimento per la categoria danza.
«Sono molto grata a Silvia Rampelli, fondatrice di questo grande progetto, nato anch’esso da una sorta di eredità di Masaki Iwana, di avermi reso partecipe del suo viaggio artistico. Anche se non è sempre facile, quando ci si conosce da tanti anni nella pratica della danza, portare a compimento un’opera con reciprocità, è proprio questa, in fondo, la caratteristica principale del gruppo. In Habillé d’eau, ci dice sempre Silvia, non esiste veramente coreografia o regia. Quando lavoriamo, noi danzatori agiamo sulla spinta di un suo impulso, ma è attraverso l’osservazione della nostra reazione, che sovente è altra cosa rispetto allo spunto originario, che la creazione va formandosi. Al contempo quanto noi facciamo è sempre in ascolto di quel che Silvia mette in campo. Insomma, difficile dire, in certi casi, chi sia la guida. Silvia sostiene che può avanzare nella ricerca principalmente “perché guarda i nostri corpi danzare”. Oggi, dopo tanti anni di lavoro comune, mi rendo conto quanto questo connubio abbia influenzato e influenzi, anche in modo molto indiretto, il mio cammino artistico personale».
Come accennato, il lavoro individuale di Alessandra Cristiani è caratterizzato da un costante dialogo con figure artistiche del passato o del presente, per mezzo delle quali le è possibile mettere a fuoco alcuni “nodi” cruciali legati al corpo e al suo essere nel mondo. Lo studio delle opere di questi autori, così come della loro vita, del contesto sociale che li ha visti operare, le permette di riflettere, indirettamente, sulla contemporaneità: la presenza di una sorta di interlocutore altro rispetto a sé, al proprio universo interiore e al tempo presente, «fa come da boomerang», da punto di riferimento nel quale il personale si specchia nell’universale, conferendo alla danza quella particolarità di linguaggio che offre allo spettatore uno speciale punto d’accesso. Oggi, dopo aver dedicato una seconda trilogia ad Ana Mendieta (Matrice, 2023), Claude Cahun (Lingua, 2024) e Sarah Moon (Caduta la neve, 2025), Alessandra Cristiani si prepara alla realizzazione di un nuovo ciclo, The body itself, che la vede elaborare un trittico proprio attorno a quelli che erano i concetti cardine della metodologia del maestro.
«Sui miei sei lavori precedenti, che mi hanno molto impegnata, è sempre serpeggiata la metodologia di Masaki Iwana. Del metodo Masaki fece una vera e propria ossessione fondante, tant’è che riuscì a crearne uno e a “passarlo” a generazioni e generazioni di danzatori. Ho quindi messo a fuoco quelle che, a mio avviso, erano le idee portanti del suo sistema, vale a dire shadows (ombre), crisis (crisi) e dark intentions (oscure intenzioni). Al tempo stesso, forte delle esperienze precedenti, ho cercato un ulteriore “partner” – una sorta di pungolo esterno – nel mondo dell’arte visiva e l’ho trovato in Nicola Samorì, artista italiano incredibile, che elabora, espressivamente, una riflessione sull’arte pittorica e sull’immagine per me assolutamente stimolante, anche da un punto di vista “sociale”. Ciò detto, il debutto di questa creazione è previsto per il luglio 2026 e, al momento, ancora non ho idea di cosa prenderà forma da questo cammino. D’altra parte però mi dico, come sosteneva Masaki, “la confusione è lo stato migliore per cominciare a danzare”».
Il palcoscenico del corpo
Charlot 16.03.2025, 14:35
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