Per chi non ci fosse mai stato, l’Atelier Attila è un buon avamposto dal quale scrutare il fronte sul quale opera Nando Snozzi. Pittore, ma pure performer e regista di azioni teatrali che lo vedono riunire professionisti della scena, scrittori e amici musicisti, l’artista bellinzonese lavora qui, ad Arbedo, dal 1981, dove, oltre a cesellare la miriade di disegni che con dedizione produce, tiene corsi di pittura aperti a tutti. «Il mio metodo di insegnamento è sempre lo stesso», mi dice. «Do una matita e un supporto a chi arriva senza altre indicazioni che non siano: “avanti, disegna”».
Eppure, cosa che potrebbe sembrare strana, per Nando il disegno non è certo stato il primo amore. Ridacchiando mi confida di aver ritrovato un suo componimento infantile nel quale riguardo alla scuola asseriva: «Mi piace tutto, eccetto disegnare». Ma a un certo punto le cose sono cambiate. «A vent’anni ero un po’ uno scimunito: grande, grosso e cióla, come si suol dire. Facevo il contabile a Bienne, quando un tale mi chiese: “Ma tu che fai nella vita?”. “Io faccio il contabile”, risposi. “Il contabile?”, disse quello, e poi aggiunse: “Il contabile… e poi?”. Non chiedermi perché, ma da quel “e poi?” le cose sono cambiate e la scintilla dell’arte ha dato fuoco a una miccia che ancora frigge».
Lasciata la professione stabile e inquadrata, Nando Snozzi inizia a viaggiare e a conoscere un mondo, quello della cultura degli anni ‘70, che gli apre orizzonti inediti, estremamente politicizzati, dove, in modo istintivo, sceglie di dedicarsi alle arti figurative iscrivendosi all’Accademia di Belle Arti di Milano, dopo un breve passaggio al CSIA di Lugano. «Quando mi vide al lavoro, il direttore di allora mi disse: “Che cacchio fai qui? Va’ subito a Brera”. Allora mi muovevo come completo autodidatta. Avevo scoperto l’Art Brut, che fu per me illuminante per forza e autonomia. Ancora oggi penso che farsi una passeggiata presso la Collection di Losanna sia un’esperienza stravolgente, dalla quale si esce diversi da come si è entrati».
Ed è proprio sull’Art Brut e l’arte diseredata che, nel 1977, Nando Snozzi si laurea, prima di proseguire il suo «piccolo viaggio pirata», come lui lo chiama, verso l’Università di Paris VIII, all’epoca vero e proprio laboratorio sperimentale di apprendimento e ricerca. «Tra le cose che feci in quegli anni ci fu un grande murales, proprio sulle pareti dell’università, che scatenò un putiferio a causa delle sue immagini dure. Uscì anche un articolo su non so quale quotidiano. Mi chiesero addirittura di cancellarlo! Lì ho poi scritto il mio lavoro di tesi su Pasolini, Salò ed un segno contro…
Rientrato dalla Francia Nando Snozzi inizia la sua attività di didatta e gallerista, aprendo la prima sede del suo atelier, allora situato in Bellinzona sopra il Bar Indipendenza, dove collabora con amici artisti, fra cui, ad esempio, il poeta visivo Franco Beltrametti. In linea con la sua spinta creativa un po’ “fuorilegge”, ha come riferimenti artistici il Caravaggio e l’espressionismo tedesco, quest’ultimo soprattutto per la complementarità del discorso politico rispetto a quello creativo. «Riguardo alle altre arti, come ad esempio la scrittura che, come vedi, pratico nei miei quadri, mi sono nutrito soprattutto di romanzi polizieschi. Che tu ci creda o no, non ho praticamente mai letto un saggio. E nemmeno La Divina Commedia, anche se devo ammettere che la poesia mi piace molto».
La pittura di Nando Snozzi è difficilmente collocabile ma, al contempo, assolutamente riconoscibile, anche perché negli anni, al di là delle sue variazioni e oscillazioni, ribadisce alcuni aspetti caratteristici che la contraddistinguono. Innanzitutto il tratto, che non è mai virtuosistico, da primo della classe, ma sempre come conquistato a fatica attraverso una scalata che conduce, con continua cura e dedizione, al compimento dell’immagine. Dopodiché vi è il ricorrere a composizioni sospese fra il teatro e la tavola del fumetto: riquadri in cui si avvicendano personaggi surreali e grotteschi, armati di buffi attrezzi e con indosso strane vesti variopinte, che assieme ad animali e curiose forme, fra commenti e parole in libertà, animano situazioni di disordine e violenza, di amore e disperazione, di protesta e auto-consolazione.
«Il teatro è entrato nella mia vita dal mio incontro con Dominique Bourquin, negli anni ‘80 fondatrice del “Théâtre pour le Moment” di Berna. Lei cercava qualcuno che dipingesse in scena durante un suo lavoro. Da lì abbiamo iniziato a collaborare. Ha anche recitato nei miei spettacoli che, come sai, sono delle performance composite, nelle quali si avvicendano varie arti. Ciò detto, tutta la mia opera visiva è un po’ come una sequenza di atti, di scene, di situazioni, in cui è rappresentato il mio mondo interiore».
Nando Snozzi appartiene a quella generazione che, all’epoca delle contestazioni, ha vissuto una spinta verso il futuro molto forte. Era come se, nell’aria, ci fosse una sorta di promessa che imbeveva di senso ogni agire. Da moltissimo tempo le cose sono cambiate e interrogato su cosa possa fare, oggi, l’arte per far fronte a questo deteriorarsi del significato della vita, la sua risposta è chiara: «Personalmente sento di dover difendere quello che ho raggiunto, perché questo mi salverà, garantendomi indipendenza e ragione d’essere. Per quanto riguarda il mondo dell’arte più in generale, invece, se questo, oggi, continua a perseguire, in modo strutturale, la mera monetizzazione del fare, non vedo quale idea di futuro si possa garantire al nostro prossimo».
Uno sguardo sul panorama artistico ticinese
Tra le righe 21.10.2024, 15:30
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