Arte e Spettacoli

Caos e oracoli, teatro e vita

Le domande senza risposta di Rafael Spregelburd in scena al LAC. “Diciassette cavallini” rilegge il mito di Cassandra tra analisi apollinea e caos dionisiaco. Un teatro che trasforma la tragedia in rito urbano, specchio inquieto del presente

  • Oggi, 10:00
l_Diciassette-Cavallini_foto-Andrea-Morgillo.jpg
Di: Valentina Grignoli 

Rafael Spregelburd, Buenos Aires classe 1970, un giorno mi ha detto: «Il mondo è strano». E non era mica un capriccio filosofico, non gli interessava buttarsi in grandi teorie, anzi, aveva precisato: «Non ho pensieri particolarmente interessanti sul mondo, non sono un filosofo, sono solo bravo a costruire (altri) mondi». La sua drammaturgia si racconta anche in questa dichiarazione d’intenti, così semplice e così spiazzante, raccolta qualche anno fa per un’intervista sul teatro argentino. Il suo è un teatro che non spiega, non rassicura e soprattutto non mette in ordine niente. Piuttosto, prende le cose, che siano quelle che ci sfuggono, i dettagli minimi, oppure i traumi storici (è argentino, ne sa qualcosa!) o quelli personali, e bum! Li mette in collisione, li lascia interferire, creando un campo di forze imprevedibile. È questo il potere della sua intera opera. E sarà possibile assaggiarne un po’ sul palco del LAC, perché Spregelburd arriva a Lugano con una delle sue ultime pièce, realizzata lo scorso anno a Parma: Diciassette cavallini, produzione Teatro Due, un viaggio dove mito, psicoanalisi e caos contemporaneo si attraggono, si ingarbugliano e poi alla fine si respingono.

28:00
"Infierno", di Rafael Spregelburd. Foto di Carlos Furman (Teatro Astros)

Aire de epoca – sguardi sulla scena argentina contemporanea

Laser 03.10.2023, 09:00

  • ©Carlos Furman
  • Valentina Grignoli

A Buenos Aires, dove Spregelburd tuttora vive, il teatro è un fatto quotidiano, un tessuto urbano: «qui tutti vanno a teatro» mi raccontava. Una città con 300 sale, dove l’autofiction convive con la filosofia, la comicità popolare, il biodramma e la memoria politica (si parlava sopra di collisione di mondi…). La capitale argentina è un laboratorio permanente, una periferia (del mondo) che conosce i centri, ma che non ha alcun interesse a imitarli: «L’Europa ha forme pure, pulite. Noi ci muoviamo tra forme ibride. Per spiegare il mondo, dobbiamo accettare gli sguardi piccoli, frammentati, nostri». È da questo sguardo ibrido, meticcio, che nasce anche la libertà del suo teatro: un salto costante dal tragico al grottesco, dalla pornografia alla metafisica, dalla tragedia greca al cabaret. In altri contesti, ad altre latitudini, potrebbe forse sembrare incoerente, ma a Buenos Aires è lo stile naturale. Perché qui non ci si fida delle grandi narrazioni, ma sembra tutto un caos post-post-postmoderno. Oppure solo un bellissimo disordine.

Attenzione però, perché Spregelburd nella sua opera non “rappresenta” il mondo semplicemente osservandolo nelle sue incoerenze, lo interroga. Un esempio: parlandomi della memoria della dittatura, ancora ingombrante nella cultura argentina, mi aveva raccontato una volta la genesi di Inferno, uno spettacolo al quale stava lavorando, dedicato alla figura del “delatore”, ruolo impossibile da giudicare con moralismi da manuale. «Mi chiedo spesso quanti di noi sarebbero stati disposti a morire sotto tortura e quanti avrebbero fatto nomi. Non posso rispondere… allora ci ho scritto uno spettacolo, mi sono posto la domanda». È in questo movimento, nell’ evitare la risposta, limitandosi a aprire la domanda, che si riconosce il suo metodo. Il suo teatro quindi non è una statua commemorativa (come spesso accade invece nelle nostre sale…), ma un originale dispositivo di conoscenza, un gioco serio insomma, per usare le sue parole, dove ogni punto di vista ha il permesso di prendere voce, anche quello piu scomodo, o quello, perché no, del nemico.

In questa visione del mondo tutta speregelburdiana (concedetemi questo neologismo barocco quanto l’autore stesso), Diciassette cavallini è il suo prisma più recente. Un dittico costruito insieme all’Ensemble Stabile del Teatro Due di Parma.

Si tratta di due atti molto diversi, il denominatore comune risiede però in un’unica domanda. I due atti sono incentrati sul mito di Cassandra, declinato in veste apollinea prima e poi dionisiaca. Nel primo, L’oracolo invertito, Spregelburd immagina Cassandra su un divano analitico: una donna che sa il futuro ma non crede più al suo dono, o forse non riesce a sostenerne il peso. È questa la parte più apollinea: una realtà ancora riconoscibile, anche se già un po’ incrinata. La realtà per Spregelburd è spesso un piano inclinato, e forse qualcuno tra i lettori si ricorda la lettura che ne fece Ronconi, nell’allestimento per il Piccolo de Il panico nel 2012. Ma tornando a Diciassette cavallini, basta un respiro per passare all’altra faccia del mondo, la seconda parte, quella dionisiaca: è un’esplosione baccanale, surreale, maniacale, un teatro-labirinto dove il tempo non scorre avanti ma va all’indietro. Prima vediamo l’effetto, poi forse scorgeremo la causa. Non cercatela perché in questa spirale probabilmente non troverete la trama, ma una serie di fratture che si illuminano per un istante e subito cambiano direzione.

In tutto questo caos però, ricordiamoci che l’autore non lascia nulla al caso, perché il mito, che lui porta in scena, è per Spregelburd come un frattale: una forma, la stessa, che si ripete su scale diverse. Cassandra, il nostro mito, non è più solo la profetessa inascoltata di Troia, ma è anche una donna contemporanea che vede quello che nessuno vuole vedere, la catastrofe imminente, l’angoscia del presente, la fine del mondo come modello culturale. In questa versione, i cavalli non sono più un trucco di guerra, ma frammenti di visioni, oggetti, corpi, palloni rossi, costumi impossibili. Tredici, sedici, diciassette: il numero è un ritmo, una ripetizione.

Il teatro di Spregelburd è fatto così del resto, procede per contraddizioni, accumuli, improvvisi baratri di senso. Non è un caso che Mariano Tenconi Blanco, uno dei nomi più importanti della ‘novisima dramaturgia argentina’, lo consideri un maestro. «Ogni procedimento di scrittura è un procedimento di lettura», dice Tenconi, che lavora infatti con la letteratura, ma che riconosce nello sguardo di Spregelburd la stessa urgenza: raccontare il presente senza trasformarlo in un tema, senza appiattirlo in un messaggio. Buenos Aires vive nell’inflazione, nel sovraccarico, nell’eccesso, e il teatro ne respira e trasmette l’energia. In Diciassette cavallini tutto questo si vede con una chiarezza sorprendente: il mito riletto come psicosi urbana, la tragedia ridotta a detrito, l’analisi trasformata in rito. Il pubblico, come spesso accade nei suoi spettacoli, entra in una stanza e ne esce da un’altra. Non tutto torna qui, anzi, quasi niente. Ma qualcosa rimane: un’immagine, una voce, un gesto che sembra appartenere più al nostro tempo che al palcoscenico. E dice sempre qualcosa di noi, più di quanto immaginiamo.

Spregelburd dice che noi andiamo a teatro per ascoltare le stesse domande che ci facciamo come società. Le sue domande non sono però sussurrate, come potrete immaginare: sono urli, risate, sono anche silenzi che cadono come macigni, e a volte scarti improvvisi di linguaggio. E portano alla luce un’energia, rimasta invisibile, che tiene insieme le parti anche quando sembrano crollare.

E forse è questa la cifra di Diciassette cavallini: come in ogni suo spettacolo non c’è una morale, ma la possibilità, sottile ma decisa, di guardare il caos, senza poter scappare. E ci troveremo a chiederci, come Cassandra, se davvero abbiamo ancora voglia di capire che cosa ci stia accadendo. Perché in fondo, per riprendere le sue parole, il mondo è strano, e allora proprio per questo il teatro ci serve, più degli oracoli.

11:38
immagine

“Oltre”

Alphaville 03.12.2025, 11:05

  • iStock
  • Cristina Artoni

Ti potrebbe interessare