Dal 16 agosto al 1° dicembre 2024, il Kunstmuseum di Berna ospita, con oltre sessanta opere, una vasta retrospettiva sull’autore.
“Indifferente a tutto tranne che alla pittura, estraneo ovunque, Soutine”, scriveva Jean-Paul Crespelle, cogliendo l’essenza inquieta dell’artista. Di origine ebreo-orteodossa, decimo di undici figli, cresce in un ambiente contraddistinto da miseria e antisemitismo. Dopo aver frequentato un corso triennale all’accademia d’arte di Vilnius, approda nella Parigi degli anni ’20, dove si unisce a una comunità di artisti immigrati.
A Montparnasse, meta privilegiata per artisti e intellettuali da tutto il mondo, Soutine rivolge il suo sguardo agli invisibili della frenesia urbana: servi, paggi, garzoni, cuochi. Reietti della società, relegati ai margini e costretti a vivere e lavorare nell’ombra, diventano i protagonisti di una serie di ritratti che ne catturano, con straordinaria intensità, il ruolo silenzioso nell’opulento universo dei grandi hotel della Belle Époque. Le opere oggi esposte a Berna non offrono solo uno spaccato di interesse storico, ma rivelano anche frammenti della stessa esperienza biografica di Soutine, a riflesso della sua stessa estraneità.
In continuità con questa visione, e contrariamente alla tradizione del ritratto, che fino ad allora celebrava la nobiltà e la ricchezza, Soutine ribalta le convenzioni, restituendo dignità e umanità a persone di una classe sociale senza apparente interesse. Nel solco di quel che già il naturalismo letterario, in contemporanea con il verismo in Italia, fecero qualche decennio prima, a dimostrazione di un’art engagé, Soutine illumina la discrepanza tra la grandezza degli ambienti e la vulnerabilitàà di chi vi lavorava, permettendo di farne trasparire fragilità e precarietà.
Le giovani figure appaiono perennemente inadatte alla grandezza delle loro uniformi, con pose impacciate e sguardi che comunicano una rara intensità psicologica. Colori vibranti, travalicanti la superficie della tela e pennellate irrequiete, conferiscono alla materia un movimento perpetuo, amplificando la tensione emotiva che ne deriva. Alla mente dello spettatore riecheggiano le figure alterate di El Greco, o ancora le scene popolate da emarginati di Francisco Goya, ma con sensibilità profondamente moderne, per certi versi violente, forse proprio anche a testimonianza di quel periodo storico.
Chaïm Soutine, Le tzigane, 1926
In Le Groom, ad esempio, dai toni terragni e i contorni distorni, la pennellata vorticosa sembra disfarne la forma umana, come un corpo in bilico tra la disintegrazione e la resurrezione, e spicca per la sua capacità di trasmettere una presenza corporea e insieme eterea. Così umanamente deformato, suscita un senso di profonda empatia, proprio attraverso la sua condizione, quasi caricaturale. Il protagonista di Le tzigane, invece, con la sua postura rigida e innaturale, appare intrappolato nella propria esistenza sociale, reso tragico dai colori accesi del rosso e del blu che accentuano una sorta di dramma silenzioso.
Chaïm Soutine, Le groom, 1925
La stessa sensazione di sospensione emerge dalla paesaggistica, praticata soprattutto a Cagnes (villaggio in cui Soutine trascorse due anni, dal 1923 al 1925), in cui le case sembrano in bilico, sul punto di crollare, come se la terra tremasse sotto l’impeto emotivo dell’artista. Gli alberi si piegano, si deformano e si assottigliano sotto la forza di un vento quasi palpabile per lo spettatore. Eppure, nonostante il movimento, i loro tronchi restano saldamente ancorati al suolo, trasmettendo un senso di gravità. In queste rappresentazioni, Soutine evoca i paesaggi visionari di Van Gogh, in particolare nella loro comunione con la natura vista come una forza viva, pulsante e inarrestabile, ma con quella vena esplorativa ed emotiva alla Egon Schiele, dove il tratto deforma, stilizza e frammenta le rappresentazioni, a specchio della condizione psicologica dell’uomo, per definizione scissa e dimidiata.
In effetti, le opere di Soutine oscillano costantemente tra caos e ordine, bellezza e difformità. In Le Bœuf écorché, chiaramente ispirato all’omonima opera di Rembrandt del 1655, il corpo lacerato dell’animale diventa per Soutine un simbolo di trasformazione. La carcassa si trasfigura in una sorta di “natura morta” ipnotica, in cui i toni ocra elevano la materia carnale a un affresco di sofferenza e vitalità insieme. La cruda rappresentazione della morte è mitigata da un uso della luce che richiama le nature morte barocche, conferendo alla scena un realismo quasi palpabile.
Chaïm Soutine, Le boeuf écorché, 1925
Nelle rappresentazioni dei gladioli, i fiori s’espandono oltre i confini della tela, quasi ad indicarne una troppa vitalità per essere contenuti entro limiti definiti. Tale dinamismo visivo evoca un profondo senso di inadeguatezza, come se il soggetto sfuggisse a ogni tentativo di inquadrarlo o situarlo in un contesto stabile. Si manifesta così un conflitto irrisolto, che non solo attraversa le figure dipinte, ma riflette ancora una volta un dato strettamente biografico. Il tentativo di suicidio di Soutine, dal quale fu salvato dall’amico Pinchus Krémègne, rappresenta forse il culmine di questa lotta interiore. È forse l’eco più potente della tensione irrisolta tra essere e non essere. In quest’ottica, i gladioli non sono solo simboli di vitalità, ma incarnano anche l’impossibilità di trovare un luogo di appartenenza, rafforzando così il parallelo tra l’artista e le sue opere, entrambe intrappolate in una condizione di perenne dislocamento.
Chaïm Soutine, Les maisons, 1920-1921
L’arte della distruzione
Voci dipinte 06.10.2024, 10:35
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