Arte e Spettacoli

Come il teatro si fa carico della contemporaneità

La realtà di Buenos Aires attraverso due drammaturghi a confronto

  • 13.10.2023, 15:23
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Di: Valentina Grignoli 

L’Argentina, Buenos Aires in particolare, è uno dei paesi al mondo più fertili parlando di creazione teatrale. La capitale, con le sue 300 sale di spettacolo o più, vanta una vita culturale e drammaturgica che in ogni epoca, soprattutto dopo l’ultima sanguinosa dittatura militare, ha caratterizzato la vita dei suoi abitanti. Insomma, il teatro è parte del tessuto sociale, culturale, vitale, di questa città. C’è quello commerciale, ci sono i teatri stabili, la scena indipendente, ci sono drammaturghi che sono attori e registi, i divi di serie Netflix che la notte recitano in piccole sale underground e poi l’autofiction, la letteratura, la Storia e il nonsense.

A Buenos Aires tutti vanno a teatro, è normale, quanto ha contagiato questo la vita dei porteñi? Di sicuro la storia di questo paese ha caratterizzato la sua produzione artistica: ne è prova il grande movimento della drammaturgia argentina della post dittatura, e gli altri che seguiranno fino a quella che il conosciuto critico teatrale Jorge Dubatti ha battezzato come ‘Novisima dramaturgia argentina’.

Abbiamo interrogato chi ha dato inizio a un nuovo tipo di drammaturgia, Rafael Spregelburd, e chi oggi si fa portavoce, forse, delle nuove tendenze, Mariano Tenconi Blanco.

Il primo è anche regista e attore di teatro e cinema, ma in Argentina i confini tra diverse maestranze della scena sono quasi inesistenti. Ha vinto premi teatrali e riconoscimenti in Sudamerica e in Europa, è autore residente in numerosi teatri tedeschi e inglesi, ed è stato direttore della Nouvelle Êcole de Maîtres nel 2012. In Italia è tradotto soprattutto da Manuela Cherubini, ed è stato messo in scena da Ronconi nel 2013 con “Il Panico al Piccolo”. Ha vinto il Premio Ubu con “Lucido (regia di Roberto Rustioni) nel 2009, testo ancora cartellone grazie alla compagnia torinese di Juri Ferrini.

Tradotto in tutto il mondo, affianca all’attività nel teatro quella di saggista e traduttore. Esponente della Nuova drammaturgia argentina della post dittatura, oggi continua a essere un prolifico autore e attore, dal teatro indipendente a quello più commerciale di Avenida Corrientes, dalle serie tv al cinema.

Come racconti il mondo che ti circonda nel tuo lavoro drammaturgico?

RS: Credo che il mio pensiero emerga naturalmente, nella costruzione di un dramma. Ma non è la cosa più importante. La pièce a volte è un tassello aggiunto alla realtà e quando la leggo o la eseguo provo spesso lo stesso stupore del pubblico. Non rappresenta necessariamente quel che penso anche perché io non ho pensieri particolarmente interessanti sul mondo, non sono un filosofo e nemmeno ambisco a esserlo. Sono bravo invece a costruire un mondo, complesso, attraente e interessante. E oggi l’unica cosa che posso dire di aver scoperto con tutte le mie opere è che il mondo è strano. Andiamo a teatro per ascoltare le stesse domande che noi stessi ci poniamo, come società. Fuori dalla quotidianità io mi sento interpellato dai fatti politici e sociali del mio presente. E rispondo con l’arte. Ma non bisogna essere miei spettatori per trovare delle risposte anzi, nel mio teatro si trovano tante domande.

E che domande si pone uno spettatore di Buenos Aires oggi?

Credo che le domande siano spesso le stesse per ogni realtà sociale del globo. Forse c’è una differenza nel modo di porle, ma solo perché viviamo in un paese come l’Argentina, un paese sempre in crisi, un paese periferico. Che però conosce la storia dei centri.

Le domande sul nostro tempo, vengono affrontate in maniera molto diversa dalle posizioni centrali (l’Europa, gli Stati Uniti) rispetto alle periferie. Per esempio a me pare che l’Europa abbia una tradizione di forme pure, pulite, mentre in Latinoamerica, soprattutto in Argentina con l’emigrazione, il metissaggio, celebriamo le forme ibride. A volte le forme pure combinano le singolarità affinché assomiglino più o meno a ciò che già si conosce: si corregge la realtà, la si adatta, perché si possa incastrare meglio in una teoria più grande, per spiegarla. Quel che succede qui invece è che conviviamo con sguardi più piccoli e frammentati. È molto difficile spiegare la realtà a grandi ipotesi, grandi teorie. Molte volte per poter rispondere a fenomeni complessi dobbiamo percepire gli sguardi più ibridi e piccoli. Il mio teatro è un buon esempio della differenza di sguardi, faccio grandi salti di livello di linguaggio, dalla filosofia alla pornografia per esempio, perché è il nostro modo di catturare il mondo.

teatro argentino

Mi potresti fare un esempio concreto?

Certo, ti parlo della mia ultima pièce, ‘Inferno’. L’opera mi è stata commissionata dal teatri di Bregels in Austria, in occasione dei 500 anni dalla morte di Hieronymus Bosch. Come saprai è un pittore sul quale ho lavorato molto negli anni, ho scritto la Heptlaogia, dove prendo in considerazione i sette peccati capitali in altrettante opere, ispirandomi anche ai suoi quadri. Questa volta però mi hanno chiesto di scrivere uno spettacolo ispirato all’Inferno, così come appare nel trittico del Giardino delle delizie. Io non volevo scrivere un’opera astratta sulla pittura di questo artista in crisi nel passaggio tra Medioevo e Rinascimento, volevo proporre uno sguardo più completo e attuale. Cosa chiamiamo inferno?

Per noi argentini è ancora la memoria dell’ultima dittatura militare. Siamo vicini all’anniversario dei 40 anni di democrazia e ci sono ancora molti tabù, argomenti che non si possono pensare se non in maniera laterale - teatrale quindi.

Siamo tutti d’accordo nel condannare la dittatura. Ma è difficile mantenere viva la memoria perché cominciamo a ripeterci in frasi che oggi si svuotano di senso. Frasi necessarie per evitare che le generazioni future siano negazioniste, ma che smettono ormai di interpellarci, sono cliché.

Quello che il teatro può fare oggi è riaprire la discussione sotto altri punti di vista. Porto una figura molto controversa di quell’epoca: il delatore. Si trattava di un militante sequestrato che sotto tortura iniziava a rivelare ai militari nomi di altri militanti affinché non lo uccidessero. Ovviamente alla fine morivano tutti, delatori e segnalati. A volte capitava anche che le organizzazioni rivoluzionarie, quando un progioniero veniva rilasciato dai centri di detenzione clandestina, i centri di sterminio insomma, sospettassero immediatamente del compagno e lo fucilassero. Una situazione irrisolvibile. Spesso mi chiedo, quanti di noi sarebbero stati disposti a morire sotto tortura, e quanti avrebbero dato i nomi? Non posso rispondere a questa domanda perché non è stata la mia esperienza di vita, però lo è stata quella della generazione che mi ha preceduto, quindi mi tocca. E visto che non posso rispondere a questa domanda… ci scrivo uno spettacolo!

Ne è uscita una commedia esilarante su un tema di cui noi argentini solitamente non possiamo parlare. Abbiamo prodotto una quantità considerevole di opere artistiche sul tema della dittatura, ma sempre con un rispetto e una solennità che ci pone di fronte alla rappresentazione delle vittime. Credo che questo sia il grande nemico della produzione artistica oggi. Il teatro e la finzione devono mantenere vivo il conflitto e rappresentare tutti i punti di vista, incluso quello del nemico. È una forma della conoscenza del mondo, ed è anche una forma ludica: è come se giocassimo alla rappresentazione del mondo. Tutte le riflessioni profonde che ne potranno emergere saranno critiche e faranno in modo che le opere siano indipendenti dal pensiero già installato in una comunità di senso. Altrimenti non facciamo altro che costruire statue di pietra che rappresentano cose che già sappiamo. E a me, questa prospettiva, annoia da morire.

Oggi a Buenos Aires si vedono diversi generi teatrali. Dalla performance al teatro civile, passando per il biodramma e l’autofiction. Come autore devo dire che preferisco il teatro scritto bene! Il grande Maestro della nostra tradizione è Mauricio Kartun, ma anche Rafael Spregelburd, Romina Paula – lei della mia generazione, Ignacio Bartolone e le opere di Gustamante. Insomma qui si parla di drammaturgia trattata alla stregua della letteratura, testi complessi scritti con maestria, da attori scrittori. Siamo ispirati da quello che fecero negli anni novanta, Tantanian e Dualte (per citarne due), che iniziarono a dirigere e recitare i propri testi. In molti altri paesi sarebbero stati considerati solo scrittori. Ma per forza di necessità, non c’erano grandi registri all’epoca, qui cominciarono a autodirigersi. Si costruì così questi tipo di teatro, questo modo di lavorare, che a me interessa molto.

Come crei le tue opere? Da cosa attingi? Dalla contemporaneità che ti circonda?

Parto sempre dalla letteratura. La mia frase guida è ‘ogni procedimento di scrittura è un procedimento di lettura’. Nasce un’idea, e poi cerco cosa ci sta attorno. Il lavoro ideale, quando ho tempo, è leggere tutto quello che c’è su quell’universo. Quando sento che gli ho dedicato abbastanza … mi metto a scrivere!

Sono sensibile all’epoca in cui stiamo vivendo, e sento che ogni opera scritta ora lo è. Se prendi dieci spettacoli in scena ora a Buenos Aires oggi, in un modo o nell’altro parleranno di inflazione. I problemi che abbiamo ci attraversano, passano. A volte in maniera cosciente, a volte meno. Nelle mie opere per esempio ci sono sempre le morsillas, battute che aggiungono gli attori, piccoli scherzi, che si riferiscono all’attualità. Non mi piace però scrivere un’opera su un grande tema di attuale e di moda, come l’ecologia per esempio. Prima di tutto non trovo ci debba essere una lista, un’agenda, di temi da trattare. Non mi piace pensare al teatro per temi. Come se quando vai a ascoltare una sinfonia, chiedi di che parla. È musica, devi ascoltare e goderne, e poi senti la connessione con l’universo. Lo stesso secondo me deve avvenire in teatro, perché se no perde valore. Il teatro è importante. Teniamo agli esseri umani e c’è un gruppo di gente, nell’oscurità, che dice di essere qualcun altro, e nessuno sa bene come e perché, ma grazie a questo capisce qualcosa del mondo. E lo facciamo da 25 secoli!

La tua è una scrittura profondamente legata alla letteratura, dove indaghi per esempio anche le potenzialità di vari generi letterari. Ci vuoi fare un esempio?

In uno dei miei ultimi spettacoli, La vida extraordinaria, si racconta la relazione di due amiche poestesse che vivono tra Ushuaia, dove sono nate, e Buenos Aires. Tutto accade nel passato. Qui mi servo di tutte le forme di scrittura che riesco a usare. La pièce si sviluppa così attraverso cartoline, lettere, poesie, diari, monologhi interiori alla maniera joiciana, voci off. Mi piace molto questa soluzione: sembra solo letteratura ma è teatro, e permette espandere due aspetti molto importanti, il tempo e lo spazio. Stiamo sempre in un salotto, e il tutto avviene in un’ora – cinquanta minuti, il tempo di una seduta di psicoanalisi - ma parlo della vita delle due amiche dai 5 ai 45 anni e si viaggia parecchio. È andata in scena la prima volta nel 2018 al Teatro nacional de argentina, il Cervantes, e che ancora oggi in cartellone. Ma qui è un mondo a parte, abbiamo un tesoro, tantissimo pubblico! Sabato scorso ero in una sala di 300 persone, il teatro era pieno! E io pensavo, ma da dove arriva tutta questa gente? Che ancora cinque anni dopo viene a vedere la Vida extraordinaria?? Forse gli piace il teatro, forse ne ha sentito parlare (abbiamo vinto molti premi), ma se non gli piace, che fanno qui? Succede questo a Buenos Aires!

28:00

Aire de epoca – sguardi sulla scena argentina contemporanea

Laser 03.10.2023, 09:00

  • ©Carlos Furman
  • Valentina Grignoli

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