È abbastanza paradossale, perché se penso ad Harold Pinter mi ricordo una scena che da casa mi porta via. Malpensa, ottobre 2005, sugli schermi prima di andare al Gate la notizia del Premio Nobel a Pinter, autore del quale avevo appena scritto una tesina per l’università. Un premio che mi faceva piacere, e che avevo preso come buon auspicio per l’anno in Argentina che mi apprestavo a vivere, del resto, non era Pinter ad aver dato voce ai desaparecidos in quell’atto unico dal titolo meraviglioso del 1984, Il bicchiere della staffa? Comunque, in quanto vi sto andando a raccontare c’è qualcuno che a casa, contrariamente a me all’epoca, ci ritorna. E lo fa accompagnato da sua moglie, che tutto sommato fa un bel casino.
La casa è per Pinter, soffermandoci alla pièce The Homecoming, il luogo in cui la parola, nel suo apparente garbo può ahimé tradire, dove il silenzio, nella sua desolante vacuità arriva a comandare. Avrebbe dovuto essere un rifugio, per qualcuno, ma si rivelerà palcoscenico spietato dove il potere, il desiderio e il tradimento faranno il loro gioco. In questo testo dove la parola nasconde, e bene, Pinter mette in scena la sua poetica del non-detto, sotto il quale la paura quotidiana serpeggia: come pochi altri drammi, Ritorno a casa incarna la sua cifra d’autore e quella del clima artistico degli anni in cui è scritta.

Ma andiamo con ordine e raccontiamo innanzitutto i fatti: nella periferia nord londinese, in un “interno borghese”, vivono quattro uomini: Max, il padre, lo zio Sam, i fratelli Lenny e Joey, trentenni; invisibili ma tangibili ci sono poi: una moglie mancata, tensioni latenti, e un ordine precario. Bello bello arriva Teddy, figliol prodigo e professore universitario di filosofia che torna da un lungo periodo negli Stati Uniti con la fresca – e seducente, ovvio - moglie Ruth al seguito. Come si può immaginare, il suo arrivo in apparenza pacifico causerà però lo svelamento del disordine di questo ménage. Ruth, unica donna in un universo tutto maschile, apparentemente oggetto del desiderio e del controllo, finirà in realtà per rovesciare le gerarchie e imporsi come nuova padrona della casa, come lo vedremo. Piace, attrae, respinge. Nel corso della visita europea, Ruth farà proposte sessuali a Lenny, si concederà a Joey, per decidere poi infine di rimanere a Londra a soddisfare i desideri della famiglia. Ma attenzione, perché come spesso accade con Pinter non c’è redenzione né catarsi: tutto resta in bilico, in un equilibrio inquietante di sottomissione e dominio, dove è difficile disitricare le vittime dai carnefici in una appiccicosa ragantela di violenza. Il finale è sempre aperto e diciamocelo, nessuno ne esce veramente bene.
Ebbene sì, debolezze quali il più basso inganno, il tradimento, l’ipocrisia, l’assenza di veri legami e l’incomunicabilità, riaffiorano anche nei rapporti più intimi all’interno di una casa: questo ci racconta il buon vecchio Harold in The Homecoming. Questa famiglia nuovamente riunita sembra riuscire a comunicare unicamente attraverso l’aggressione e la seduzione in questo nido che si fa presto, come detto, campo di battaglia. Nello stile pinteriano essenziale e calibrato fatto di pause e silenzi, le esitazioni, che la critica ha rinominato Pinter pauses, sono cariche di quella violenza trattenuta. L’ironia, sarcastica e grottesca, rende più evidente la brutalità, come se la risata fosse l’unico modo per sopportare l’orrore. In Ritorno a casa, questa ironia esplode nei dialoghi sbilenchi tra padre e figli, nei botta e risposta che sembrano scherzi ma sono fendenti.
L’opera di Harold Pinter e la sua rabbia silenziosa
Sin dagli esordi con La stanza e Il compleanno, Pinter aveva esplorato il potere, la coercizione e la paura, qui lo fa con strumenti ancora più raffinati. Fa scivolare la violenza sotto la superficie del linguaggio e raggiunge un nuovo equilibrio tra crudeltà e ironia, mantenendo una costante tensione minacciosa.
Siamo nella prima delle tre fasi in cui si può suddividere la produzione del drammaturgo inglese, che a onor del vero è anche regista, sceneggiatore e attore. È un periodo sperimentale, che copre dagli anni Cinquanta tutto il decennio successivo, e fonde in perfetto equilibrio realtà e dimensione dell’assurdo. Gli ambienti piccolo borghesi dove vivono i personaggi vengono spesso invasi, la loro sicurezza è aggredita da soggetti esterni, imprecisati nella loro identità e misteriosamente minacciosi. La bella Ruth.
Il secondo periodo, dagli anni Settanta, si caratterizza invece per un’attenzione verso il mondo degli intellettuali e della borghesia, i veri protagonisti saranno il tempo e la memoria. E poi, nel terzo tempo, la produzione si farà via via più ridotta e nei drammi comparirà una ragione politica che fa da sfondo a racconti dominati dall’incomunicabilità.
Nel contesto del teatro inglese degli anni Sessanta, Pinter è un po’ in bilico. Fa parte di quella generazione di giovani arrabbiati, chiamati così a seguito dell’opera di Leslie Paul Angry young man del 1951, e soprattutto dopo la rappresentazione della commedia di John Osborne, Ricorda con rabbia, che inaugurerà una stagione di protesta contro l’estabilishment inglese, sociale e culturale. Ma Harold, anche se scardina come Osborne il conformismo del dopoguerra, va oltre e rovescia il linguaggio. È un giovane uomo arrabbiato sì, ma attenzione, non grida e trova la forza nel silenzio tra le frasi, non denuncia apertamente lasciando al pubblico l’onore del giudizio. Una rivoluzione silenziosa insomma la sua, che scuote la scena britannica tanto quanto il realismo di Osborne. Non per niente il decennio degli anni Sessanta è cruciale nella consacrazione di Pinter in Inghilterra. E The Homecoming verrà poi definito dal critico Guido Davico Bonino nella sua nota introduttiva al Teatro II edito da Einaudi, “I Buddenbrook del drammaturgo inglese”, dopo questo spettacolo, successi a ruota.
Il copione è messo in scena dalla Royal Shakespeare Company per la regia di Peter Hall, la Prima il 3 giugno 1965 all’Aldwych Theatre. Ma la regia di Hall lascerà il pubblico diviso: alcuni critici trovano indecente la freddezza con cui Ruth prende il controllo della situazione; altri riconoscono invece nel testo un capolavoro. La produzione del 1967 a Broadway gli varrà però quattro Tony Awards, e consacrerà Pinter a livello internazionale. Nel 1973, ancora Peter Hall ne firma la versione cinematografica, e da allora la pièce è regolarmente ripresa: dall’Almeida Theatre nel 2008 al Trafalgar Studios nel 2015, fino alla recente produzione del Young Vic (2023) che ne ha sottolineato la sorprendente attualità, per parlare del mondo anglosassone.
“Ritorno a casa” oggi e in Italia
Oggi Ritorno a casa resta un testo disturbante proprio perché non offre vie d’uscita. Il finale è aperto, inquietante, non restituisce stabilità ma lascia lo spettatore sull’orlo di un abisso. Non consola nessuno, al massimo ci interpella e ci mette in guardia. La violenza non ha età né tempo, è sempre qui, per questo il testo rimane attualissimo. Nei dialoghi di Pinter la violenza è invisibile, insinuata nel ritmo, nella memoria, in quella parola che non arriva mai a compiersi del tutto. Come scriveva lo stesso autore: «Il linguaggio non serve a spiegare la realtà, ma a nasconderla». Sconcertante il ruolo di casa e famiglia, specchio e lente d’ingrandimento di una società sorprendentemente attuale.
In Italia, Ritorno a casa ha visto varie riletture, segnalo quella di Peter Stein del 2013, con Paolo Graziosi nel ruolo di Max e Arianna Scommegna come Ruth. Stein, ha scelto un impianto quasi cinematografico, una scenografia “realistica”, poltrona al centro, scala sul fondo, ambientazione povera ma inquietante, per mostrare ancora come la violenza di Pinter dorma sotto la superficie della quotidianità.
La versione che vedremo al LAC invece è quella diretta da Massimo Popolizio, già al Piccolo Teatro di Milano, che punta sul carattere “pericolosamente divertente” del testo, evidenziando l’humour nero e la fisicità della tensione. Come Stein anche Popolizio sembra rifarsi all’estetica cinematografica. Le note di produzione richiamano la casa di periferia, gli uomini con il loro crudo maschilismo, Ruth che ribalta tutto l’assetto.

Il potere trasformativo delle storie
Charlot 16.11.2025, 14:35
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