TEATRO

Solo un bacio, per il “matt” Antonio Ligabue

Vita e tormenti del pittore naïf, genio ai margini, sull’orlo della follia: per conoscerli e capirli, si può cominciare dallo spettacolo di Mario Perrotta

  • 6 agosto, 17:03
  • 6 agosto, 17:15
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Mario Perrotta nello spettacolo Un bès - Antonio Ligabue

  • Courtesy Mario Perrotta - foto Luigi Burroni
Di: Lucrezia Greppi 

Un bès, solo un bacio. Un trasandato e farneticante Mario Perrotta, nelle vesti del matt Antonio Ligabue, appare tra le fila del pubblico del teatro implorando un semplice gesto di affetto, con la disillusione e la rabbia di chi è sempre vissuto ai margini e sa che verrà ignorato. Non una parola gentile, uno sguardo affettuoso: occhi torvi e visi arcigni da sempre fissano e irridono lo “scemo del villaggio”. Volti maligni di gente savia che lo stesso attore tratteggia armato di carboncino, sui tre pannelli rotanti in cui disegna la storia di “Toni” e su cui volteggia disperato, svelando il risvolto della vita dei diversi di ieri: la cella psichiatrica.

Tredici giorni prima del Novecento: questa “sfortunata” data di nascita, farfuglia Perrotta-Ligabue, ha fatto tutta la differenza. Un’esistenza proiettata nel passato, affollata di fantasmi della mente che lo inseguono nella sua vita raminga e selvaggia, catturati in quei fogli incisi e strappati sul palco, ma di cui non riuscirà mai davvero a liberarsi. Come la figura evanescente della madre biologica Maria Elisabetta Costa, bellunese che lo affidò a una coppia di svizzeri tedeschi a soli nove mesi; era troppo piccolo, non potrebbe ricordarlo, ma Toni è convinto che prima di lasciarlo non gli diede neppure un bacio. Ecco allora che scancella quella lacrima che aveva disegnato sul suo volto di carta, per poi mostrarci una più felice pagina della sua vita: l’infanzia con la vera mutter, la svizzera tedesca Elise Hanselmann, in fattoria, con quegli animali che ha sempre sentito a lui affini.

Parlandole, dopo minuti infiniti in cui un magistrale Perrotta, con il suo eloquio nevrotico e fastidioso, nel vorticare di discorsi sempre uguali e martellanti che ci hanno proiettato dolorosamente nella mente di Ligabue, sentiamo finalmente la sua voce distendersi, rilassarsi. E chiedere docilmente: «dam un bès». Richiesta che non verrà negata ma rimandata a un domani in cui lui farà l’identica domanda e lei darà la medesima risposta, sino a quando la sua amata madre – la stessa che lo aveva fatto sentire speciale e non sbagliato – lo farà allontanare, a seguito di una crisi nervosa. Era il 1919. L’addio è definitivo, non è più un andirivieni tra scuole e cliniche diverse; non potrà più sperare dal buio della cella di sentire la voce materna declamare il suo nome, A-n-t-o-n-i-o, quando affermava così quell’esistenza per molti superflua, che lui rivendicherà in centinaia di autoritratti.

02:31

San Gallo, Antonio Ligabue lo svizzero

Telegiornale 01.04.2019, 20:00

Voltata la carta, Toni varca il confine e lascia i paesaggi rurali della Svizzera per arrivare a Gualtieri, nel Reggiano, paese d’origine dell’odiato patrigno Bonfiglio Laccabue - cognome che sostituirà con quello che oggi conosciamo. Ed è qui che il nostro apolide esistenziale è doppiamente straniero: lui, che era l’italiano in Svizzera, ora è il tedesch; lui, che ha sempre parlato la lingua degli animali, si esprimerà in uno strano idioma, a metà tra il dialetto locale e la lingua d’origine. Non dovrà attendere molto per conoscere la cattiveria gratuita degli uomini normali che tanto temono le stranezze e non mancano occasione per farlo sentire fuori luogo.

Così comprendiamo appieno perché quell’anima fragile si era presentata a noi, spettatori passivi della sua vita, ripetendo ossessivamente «permesso, disturbo, sono di troppo?», e così capiamo la scelta di rifugiarsi nella natura, in capanne in riva al fiume, dove crea sculture con l’argilla, dipinge con tinte ricavate da fiori e piante e dorme in piedi tra balle di paglia. Sugli argini del Po, in questo limbo pacifico, ad un passo dalla società (in)civile, nel selvatico Ligabue si fa sempre più pressante la tragica consapevolezza, come nota il suo mirabile interprete, di essere «un rifiuto della società e al contempo un artista». Terra di mezzo, tra genio e follia, che a dieci anni dal doloroso addio alla madre, gli farà incontrare Renato Marino Mazzacurati, suo primo amico e mecenate.

Ligabue era bizzarro: sarebbe inutile e ingiusto negarlo; il racconto di Mario Perrotta si spinge ben al di là del comodo cliché «i veri pazzi sono fuori (dai manicomi)”, ma incarna Toni in tutte le sue fragilità, i suoi tratti spigolosi, irritanti ed anche inquietanti, dolci, teneri e struggenti, per restituirci un ritratto veritiero dell’uomo e dell’artista, con quel desiderio che appartiene a tutti, chi più chi meno, di essere compresi, accettati, amati.

22:12

Il bacio svizzero di Antonio Ligabue

Geronimo 10.10.2014, 16:52

E forse poco importava a Ligabue, di essersi riscattato con quella mostra romana in cui si presentò a piedi nudi e in cui venne riconosciuta la sua arte: chissà se quest’orfano d’amore baciato dal talento non avrebbe preferito il semplice bès di Cesarina, locandiera di Guastalla che conobbe negli ultimi anni della sua vita, e a cui soleva appunto fare con insistenza e speranza questa domanda. Divenuta negli anni ’90 una canzone dei Nomadi e nel 2013 il titolo della pièce di Perrotta, nata nell’ambito del Progetto Ligabue e tuttora riproposta nei teatri.

Dal punto di vista umano, non dovrebbe essere così rilevante anche per noi se questo outsider fu anche un genio. Un bès ci invita ad andare oltre la storia di Ligabue, al di là del celebre pittore, per sapere riservare uno sguardo gentile a chiunque ci appare stravagante, strano e diverso, perché – come insegna la vita di Toni – spesso dietro a ciò che non comprendiamo e per questo temiamo si nasconde una grande sofferenza. Lodevole è tener viva la memoria di questo straordinario artista – in film (come Volevo nascondermi di Giorgio Diritti), mostre (San Gallo accolse l’esposizione titolata Antonio Ligabue: il Van Gogh svizzero) e libri (quali il bel romanzo di Renato Martinoni La campana di Marbach), ma il miglior tributo è forse appunto evitare di aggiungere dolore al dolore, alle tante anime perse di oggi.

È troppo semplice, come cantano Carlo Corallo e Murubutu in Storia di Antonio, trattare i «molti rimasti ai margini» come dei «matti» e poi solo da morti renderli «martiri». Troppo comodo assecondare le richieste di un folle, come è successo a Lugano, dove una signora in platea ha spedito l’agognato bacio a Ligabue-Perrotta. Il cuore del messaggio di Un bès, io sospetto, è un altro: riservare la stessa sensibilità a dei perfetti sconosciuti. Se i cittadini di Gualtieri lo avessero fatto, Marino non avrebbe incontrato Toni nel bosco e non avrebbe potuto dargli la notorierà che meritava. Forse Toni avrebbe solo preferito nascere con il vento nuovo del 1° gennaio 1900 ed essere “giusto”. In quel caso non avremmo potuto assistere al fine, profondo e universale spettacolo di Perrotta. Ma questi sono tanti se, e forse ho finito per somigliare al matt, così simile e così diverso a tutti noi.

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