Tempo di vacanze. Aria di mare. Quale occasione migliore per immergere i piedi nell’acqua salata e celebrare uno tra gli animali marini più popolari della storia del cinema. Lo squalo (Jaws, 1975) compie mezzo secolo (usciva il 20 giugno 1975) e con lui l’impennata artistica di Steven Spielberg che, terza scelta dei produttori, finì per firmare una pietra miliare. Un colpo di fortuna, come spesso accade. Il più rodato John Sturges, a cui si voleva affidare la regia, preferì rifiutare dopo l’esperienza traumatica di Il vecchio e il mare (1958), mentre la seconda scelta Dick Richards pare non avesse ben compreso la differenza tra uno squalo e una balena. Spielberg quella differenza la conosceva bene, tanto da ritenere di poter tradurre la sfida tra uomo e macchina del suo Duel (1971) in quella tra uomo e natura che avrebbe caratterizzato Jaws. Purtroppo, o per fortuna, a differenza di Sturges non aveva mai girato un film in mare aperto.
Quella delle 3B è una regola non ufficiale ampiamente conosciuta nel mondo del cinema. Per evitare guai, sul set si dovrebbe stare alla larga da Bambini, Barche e Bestie: tre elementi complessi da gestire che rischiano di comportare ritardi e problemi logistici. È vero, nel film di Spielberg di bambini non ce ne sono e la bestia è in realtà un animatronic, ma le barche non mancavano di certo. Non è un caso che Richard D. Zanuck e David Brown, dopo aver acquisito i diritti dell’omonimo romanzo di Peter Benchley, abbiano dichiarato che se solo avessero letto quel libro una seconda volta, mai si sarebbero messi in testa di farne un film.

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I problemi per individuare il cast non furono troppo diversi da quelli in cui ci si imbatterebbe per qualsiasi altra produzione. Charlton Heston si offrì per la parte del protagonista, ma quando Spielberg rifiutò l’offerta ritenendolo troppo in vista, l’attore non la prese bene, dichiarando che mai più avrebbe recitato in un film del regista. L’obiettivo era del resto quello di usare volti non troppo noti, e dopo un vaglio che escluse una sequela di promettenti divi si finì sulla triade composta da Roy Scheider, Robert Shaw e Richard Dreyfuss. Per la scelta della compagna dello sceriffo fu invece un gioco di potere e raccomandazioni. Zanuck aveva promesso il ruolo alla compagna Linda Harrison, senza considerare che Sidney Sheinberg, allora capo della Universal, aveva avuto lo stesso pensiero per sua moglie Lorraine Gary. L’ordine gerarchico condusse alla più ovvia delle decisioni.
I problemi veri giunsero in fase produttiva. I tempi di ripresa, programmati su 55 giorni, si moltiplicarono fino a 159 a causa di un meteo capriccioso, ma soprattutto per colpa dei problemi tecnici con i tre squali meccanici, che portarono presto alcuni membri della crew a riferirsi al film, anziché col titolo “jaws” (fauci/mascelle), col nomignolo canzonatorio di “flaws” (difetti). Malfunzionamenti più accettabili di quanto non sarebbero stati i pericoli provenienti dall’utilizzo del vero squalo bianco che, inizialmente, si era pensato di addestrare. Spielberg, più volte sull’orlo del licenziamento, pensò bene di risolvere ogni grattacapo tecnico mostrando il meno possibile l’animale e trasformando un problema in una possibilità: quella di terrorizzare grazie alla presenza non visibile del pericolo.
Inevitabile che anche il budget lievitasse dai 3,5 milioni previsti ai 12 effettivi, con l’aggiunta di 2 milioni dedicati esclusivamente a una campagna di marketing che potesse portare il pubblico in sala, sebbene in piena estate. Una scommessa vinta che condusse a un incasso vicino ai 500 milioni di dollari e a un film che ancora oggi coinvolge e spaventa.
Non è un caso che lo sceneggiatore David Koepp, che più tardi avrebbe lavorato con Spielberg su varie pellicole, definì Lo squalo “un miracolo di costruzione, di personaggi e di suspense.” Nonostante gli ingranaggi produttivi si fossero incagliati più volte, tutto di questo high concept risultò al proprio posto, una volta montato. La musica essenziale di John Williams, che Spielberg prese inizialmente come uno scherzo, resta tra le colonne sonore più incisive di sempre; lo script, rimaneggiato da più mani, un meccanismo che spacca il minuto; il montaggio, la suspense, le soggettive della bestia marina, così come le scelte cromatiche che portarono all’eliminazione di abiti rossi al fine di esaltare il colore del sangue, la dimostrazione di trovarsi di fronte a un regista che si sarebbe presto guadagnato l’appellativo di “maestro”.
Non basta però un maestro del cinema per trasformare una pellicola in un classico. Un classico diventa tale se vince la sua lotta contro lo scorrere del tempo e se ha un’estetica degna di essere ricordata, ma soprattutto se i temi che porta a galla tra le righe del racconto restano vivi e universalmente riconoscibili. La lotta darwiniana dentro cui la civiltà vacilla è, in questa pellicola, quella di una natura in conflitto con l’uomo, di una società cieca di fronte alle proprie contraddizioni. Un capitalismo miope che antepone il profitto alla vita delle persone e che, nell’amministrazione dell’Isola di Amity, trova il vero nemico. Proprio per questo, Lo squalo non è solo un film d’azione tinto d’orrore, ma una riflessione sull’ansia collettiva, sull’illusione del controllo e sulla fragilità della società moderna e dei suoi ideali. Oltre a tutto questo, nell’incontro tra il film e il suo pubblico, si svela l’influenza a volte terribile che una pellicola può avere, e di cui Spielberg a tutt’oggi si rammarica: “lo sterminio della popolazione di squali causato dal libro e dal film mi dispiace davvero, profondamente.”
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