La seconda stagione di And Just Like That - il seguito di Sex and the City - è, come la prima, L’anno del pensiero magico di Carrie Bradshaw. Nel libro di Joan Didion il lutto dell’amato era centrale, lo è anche qui. Big non c’è più, e Carrie deve fare i conti con l’elaborazione di quell’assenza. In particolare, con la sindrome del “non devi preoccuparti per me” che l’attanaglia. Arriva a inventare scuse pur di non dire alle amiche che sta ancora male per la morte di John. Carrie è una di quelle donne che non vogliono pesare sugli altri, quelle che ti permettono di pesare su di lei: non l’unica, per questo tanto rappresentativa.
La seconda stagione di And Just Like That è godibile quanto la prima e ha alcuni momenti che vale la pena commentare. Come la canzone che Lily, la figlia di Charlotte, scrive e canta alla famiglia. Parla di privilegio e di non essere viste, ed è il primo ruggito della sua adolescenza, ancora così tanto dolce. Charlotte stessa, in teoria una delle eroine, non sembra in grado di fare nient’altro che sdrammatizzare. Ma continua a non vederla. È la serie che mette in scena una critica allo stesso privilegio che propone in ogni puntata.
C’è Miranda che nella prima stagione aveva lasciato il marito e si era messa con Che, persona non binaria e stand up comedian; in questa seconda, da una parte siamo felici di vederla soddisfatta e serena nell’esprimere finalmente il suo desiderio, dall’altra appare ridotta a groupie, a cheerleader. Proprio lei che era quella indipendente del gruppo, si costringe e costringe gli spettatori a degli sforzi frustranti per tenersi stretta Che. Il famoso lavoro di cura, qui, lo fa ancora tutto lei. Confermando che il sessismo è questione di potere e non di natura: Che ha la fama dalla sua, Miranda si riduce al ruolo che aveva la ninfa Eco per Narciso. Non spoilereremo come va a finire.
Di cose da dire su questa seconda stagione ce ne sono. Eccone una carrellata: si tocca il tema della paranoia sulla cancel culture (episodio 2), a un certo punto appare una pistola-accendino piuttosto divertente, c’è il ritorno di un vecchio personaggio che però non è Samantha, e un ruolo viene dato anche al nipote di Bud Spencer (il 27enne Sebastiano Pigazzi). C’è perfino un cameo di Gloria Steinem in persona: viene ricordata la rivista che fondò, Ms., su cui scriveva con Toni Morrison, Adrienne Rich, e che fu laboratorio femminista e giornalistico pieno di inchieste degne di questo nome.
Se Sex and the City ha il grande merito di aver fatto conoscere alcuni sex toys - il celeberrimo rabbit, per esempio - a tutto il mondo, And Just Like That mette in scena per la prima volta (probabilmente da quando esiste una telecamera), un aggeggio per la disfunzione erettile (una penis pump). Di fronte a donne che hanno imparato a rispettare il desiderio proprio e altrui, però, gli uomini della serie sembrano sempre gli stessi. Granitici, poco empatici (non tutti, certo): non si preoccupano neanche di dare un orgasmo, e si offendono se le partner se lo provano a procurare da sé. A conferma che la serie non è slegata dalla realtà. Pare infatti che le donne eterosessuali siano il gruppo demografico che ha meno orgasmi in assoluto in coppia: solo il 65% dei rapporti ha un happy ending, contro il 95% degli uomini etero.
C’è, poi, l’elefante nella stanza. E cioè il privilegio di classe. Non si può non parlarne quando si commenta un prodotto legato a Sex and the City. Nel terzo episodio per esempio c’è un cliché assolutamente gratuito: dove lavora Carrie entra un tecnico; viene detto che puzza, lui saluta inconsapevole delle offese che scherzando gli rivolgono alle spalle, se ne va facendo il segno della pace con due dita. Lo stereotipo della zecca, e pure classista visto che lui ha un ruolo da operaio. Forse puzza perché lavora per davvero, viene da dire.
Un altro problema emerge quando si decide di parlare di poliamore. La dinamica riguarda Miranda, Che e un suo ex. Questi ultimi due insistono un po’ troppo nel proporle un rapporto, anche dopo che lei ha detto chiaramente che la sua risposta viscerale è no. A questo punto le viene messa fretta, fatta pressione. Non è correttissimo che il poliamore venga rappresentato come una sorta di perversione che sfocia nel quasi-abuso, come qualcosa che prescinde dal consenso. È un argomento talmente importante, e in questi anni discusso dal miglior femminismo (consigliato il libro Per una rivoluzione degli affetti di Brigitte Vasallo), che meriterebbe maggiore analisi, attenzione e anche aderenza alla realtà se rappresentato. Decidere consensualmente di avere rapporti con più persone non può voler dire meno cura, al contrario: deve esserci più cura. Non meno consenso, ma più consenso. Più attenzione. Se nella realtà ci sono anche i casi come quello messo in scena è giusto che vengano rappresentati, ma chiamandoli col loro nome. Che ha più a che fare con l’abuso che col poliamore.
Se nella prima stagione si parlava di alcolismo e donne, rompendo un tabù, qui la dipendenza è un’altra. E cioè il lavoro. La morale di uno degli episodi, il quinto, è che si può lasciare tranquillamente una persona perché è workaholic, o perché lavora con persone tossiche da cui non riesce a proteggere né se stessa né chi ha intorno, e il tutto senza rancore. «I wish you a long and happy marriage», dirà Carrie al tipo riferendosi al lavoro. Lei, nel frattempo, ha fatto il primo passo per andare avanti dopo la morte di Big. È già qualcosa.
Sarà anche uno show classista (per fortuna in larga parte consapevole di esserlo), ma continua a toccare argomenti universali. Il lutto è certamente uno di questi. Sex and the City ci ha consegnato il rabbit e ha impedito a Sarah Jessica Parker di rifarsi il naso nonostante tutte le pressioni maschili che ha ricevuto fin dall’inizio della sua carriera. Forse la serie è meno ipocrita di quelle che vogliono parlarci di diritti mettendo in scena donne fatte con lo stampino di una perfezione fisica irraggiungibile. Quindi, ancora viva Sex and the City. E And Just Like That, e i nasi ostinatamente imperfetti, dunque bellissimi.