C’è ancora domani, l’esordio alla regia di Paola Cortellesi (che l’ha anche co-scritto e che, com’è ovvio e noto, ci ha recitato dentro) sorprende tutti perché coglie non solo l’argomento giusto, ma anche e soprattutto la chiave. L’unica chiave possibile con la quale parlare di violenza contro le donne in Italia, e avere un grande riscontro di pubblico: una chiave comica - precisamente, lei sceglie il dramedy - e possibilmente girata nel passato. Sembra questo, in effetti, l’unico modo per permettere una sorta di autoanalisi di massa a un Paese così suscettibile a scattare sull’attenti e a ideologizzare ogni cosa.
Se fosse tutto finito (e la violenza patriarcale non fosse così incistata) non ci si sarebbe precipitati a riempire le sale. Se fosse tutto finito, frasi come “manco la serva sai fa’” non suonerebbero familiari. Se fosse tutto finito, chi empatizzerebbe per la figlia che odia la madre perché non si ribella al padre? È un sentimento meschino, ma noto, reale, incarnato. Chi, ancora, se tutto fosse finito empatizzerebbe con questa madre che a un certo punto si chiede: come puoi difendere tua figlia, se non sei in grado di difendere te stessa?
La chiave comica salva il film dalla pornografia del dolore che tanto piace agli italici schermi, piccoli e grandi. L’unico schiaffo apertamente messo in scena è all’inizio. Serve a porre il tema. Ti dice: questo film parlerà di questa cosa qui. Poi ne parla davvero, ma quando si tratta di rappresentare la violenza lo fa con una metafora, quella della danza. Nei momenti in cui lui picchia lei, in realtà ballano. La co-dipendenza rappresentata bene. La violenza inscenata con insperato buongusto. I due ballano su canzoni dal testo significativo (“nessuno, ti giuro nessuno, nemmeno il destino ci può separare”), così allegre e ariose, così tanto italiane; il contrasto con la violenza patriarcale fa suonare quelle parole come una minaccia, quale spesso sono. Mette tutta un’altra luce sull’amore romantico e i suoi talvolta mortiferi cliché.
C’è molta Roma nel film, chiaramente, ed è nelle battute messe in bocca a un’impeccabile Emanuela Fanelli (quella sulle puntarelle del Wisconsin fa ridere ad alta voce), nel sempre sottovalutato ruolo diplomatico delle pastarelle nei pranzi di famiglia (soprattutto se in famiglia c’è chi alza il gomito e il vino tende a diventare sangue come un miracolo di cristo al contrario), c’è Roma, una Roma buffa, nel “bar a mezzi co’ Cecio l’infame”.
Il film è semplice, nella semplicità trova la forza che lo ha fatto piacere a una fetta così ampia di pubblico. È stato definito “didascalico”, tuttavia le stesse persone che lo definivano tale lo hanno inteso così: la violenza contro le donne si risolve col voto e con la politica istituzionale. Viene da pensare dunque che la scena della bomba non fosse abbastanza didascalica. Certo è che non si può prescindere dalla situazione cinematografica italiana attuale nel commentare questo prodotto che mette in scena la violenza di genere. C’è ancora domani è il Maid italiano, perché il fulcro è la necessità di una donna che è anche madre di liberarsi, unico presupposto per l’adultità (e l’Italia di adultità ha bisogno, di prese di responsabilità pure). Semplice, mai troppo didascalico, promotore di un femminismo di bombe e di voti ma soprattutto le cui ingenuità sono riscattate dalla scena finale, il cui fulcro non è il voto ma la massa. “Guarda quanta gente c’è che sa rispondere a bocca chiusa”, dice la canzone in sottofondo. E ti fa vedere che faccia ha un ribaltamento di potere, un modificarsi degli schieramenti, un capovolgere la paura. Un female gaze - su questo marito interpretato da Mastandrea incredibilmente plausibile anche con quei baffoni e in salsa “padre padrone” - che si fa sguardo condiviso, del popolo. Il film è un auspicio. Criticarlo, anche, è sano, ma non si dovrebbe mai dimenticare quando lo si fa qual è il contesto, tutt’altro che ideale, nel quale si muove.
Le uscite cinematografiche di giovedì 16 settembre
Spoiler 16.11.2023, 13:30
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