Il 6 ottobre del 1927, il teatro newyorkese di casa Warner era gremito di spettatori. L’unico a mancare, stroncato da un’infezione cerebrale solo il giorno prima, era colui che più di ogni altro aveva voluto quell’evento, rendendo possibile un sogno per i più irrealizzabile. Sam Warner era stato il solo della famiglia a credere ciecamente nella possibilità di sonorizzare i film. Trascinando i fratelli nell’impresa, aveva rivoluzionato l’industria del cinema. Quel 6 ottobre, la reazione che The Jazz Singer (1927) suscitò nella vasta platea di addetti ai lavori fu un misto di euforia e terrore. Frances Howard, moglie di Samuel Goldwyn, tra i più influenti produttori del tempo, si guardò attorno nella sala osservando curiosa le espressioni degli astanti. “C’era il terrore nei loro volti,” avrebbe riportato in un’intervista, “la consapevolezza che il gioco a cui avevano giocato per anni era finito.” L’emblematica battuta di Al Jolson, protagonista della pellicola, si sarebbe rivelata una profezia: “Aspettate un minuto! Non avete ancora sentito niente.”
Il passaggio dal muto al sonoro avrebbe creato più vittime di quanto non avrebbe fatto la grande depressione. Tra gli attori che persero il lavoro per un accento poco gradito e coloro che avevano un timbro non adatto al personaggio da sempre interpretato, vi furono malumori, suicidi e cambi di carriera. Coloro che riuscirono a riadattarsi dovettero sottostare a una drastica trasformazione dell’industria, che vide presto il sorgere di nuove divinità dello schermo. Il percorso per raggiungere quel traguardo era stato lungo e tortuoso, ma già Thomas Edison aveva desistito quando, sul finire dell’Ottocento, aveva provato a combinare due delle sue più recenti invenzioni: il fonografo e il kinetoscopio. Da allora numerosi tentativi, culminanti con gli esperimenti della Warner col Vitaphone, la sonorizzazione di alcuni corti e quel Don Juan (1926) che, senza dialoghi ma ricco di musica, riuscì a stregare una platea ancora scettica nei confronti del sonoro ben un anno prima di The Jazz Singer.
Persino il padre del cinema americano David Wark Griffith, che nel 1921 aveva sperimentato sequenze sonore col suo Dream Street, si era espresso negativamente sulle sorti di questa tecnologia: “Non sarà mai possibile sincronizzare le voci con le immagini. Sono abbastanza sicuro che, quando sarà passato un secolo, ogni pensiero riguardo i nostri cosiddetti film parlanti sarà stato abbandonato.” Sostenendo che invece di rendere i film più reali li rendesse meno credibili, il giornalista Henry Carr dichiarò che “la voce accentua qualcosa che qualche volta dimentichiamo: i personaggi di un film sono ombre piatte su un muro. Nella vita vera, alcuni di loro parlano come pavoni ammalati.” Lo stesso Irving Thalberg, tra i più lungimiranti produttori del periodo, confessò alla moglie: “Il suono è una moda passeggera. Non durerà.”
Bastò poco per capire chi avesse ragione, e la corsa alla sonorizzazione fu tanto veloce da collocare presto il cinema muto e i suoi divi nella stanza buia in cui dimenticarli. Difficile fermare il treno in corsa del progresso, impossibile rifiutare i suoi meravigliosi traguardi, altrettanto complesso, però, negare quanto poco spazio abbia avuto il muto, prima del drastico rinnovamento. “Tutto ciò che il cinema muto aveva fatto per l’intrattenimento e la bellezza dell’azione... era svanito,” disse Cecil DeMille discutendo sulla delicata transizione, mentre Douglas Fairbanks, visitando la scena di un film sonoro insieme al set designer Lawrence Irving, confessò amaramente: “Lawrence… il fascino della creazione cinematografica finisce qui.” A riunire tutti sotto la grande bandiera dello scontento fu infine Gloria Swanson, che col personaggio di Norma Desmond riportò in Viale del tramonto (1950) un sentore condiviso da molti, lamentandosi da brava diva decaduta di quanto il cinema si fosse fatto piccolo: “È finito, distrutto. Un tempo, col nostro mestiere, gli occhi di tutto il mondo erano stregati da noi. Ma non era sufficiente per loro, oh no! Dovevano impadronirsi anche degli orecchi. Allora aprirono le loro bocche bestiali e vomitarono parole...” Bando a mielosi romanticismi e a lacrimosi “amarcord”, resta il dato che, in soli trent’anni, ciò che aveva innalzato il cinema a forma d’arte consolidandone la grammatica era svanito.
Per molti, il cinema muto aveva ancora tanto da offrire, per altri, la sua fine si rivelò una benedizione. Tra le realtà che ancora credono nella sua grandezza, fra cineteche e cinefili, festival e retrospettive, le Giornate del Cinema Muto di Pordenone restano un appuntamento fondamentale. Giunte alla loro quarantatreesima edizione, offrono infatti anche quest’anno una selezione di film straordinari e difficilmente reperibili, confermandosi uno dei più importanti festival del cinema muto al mondo. Con una serata di preapertura dedicata a Girl Shy (1924) di Fred Newmeyer e Sam Taylor il 4 ottobre, la rassegna si chiude domenica 13 con la proiezione di The Winning Of Barbara Worth (1926) di Henry King. Nel mezzo, decine di proiezioni per celebrare grandi maestri e produzioni poco note, film di culto musicati dal vivo e brevi sequenze salvate dall’oblio. Tra le numerose offerte, vari cortometraggi di David W. Griffith, l’epico western 3 Bad Men (1926) di John Ford, il magnifico Pagine dal libro di Satana (1920) di Carl Theodor Dreyer, Tre donne (1924) di Ernst Lubitsch e Raskolnikov (1923) di Robert Wiene, in una lista lunghissima che spazia dal grande cinema hollywoodiano alle produzioni di tutto il mondo, tra America Latina, Russia, Europa e… Uzbekistan. Le Giornate di Pordenone, come ogni anno, tornano a far risplendere il grande firmamento del cinema muto ma, giocando con le parole di Al Jolson, non avete ancora visto niente.
La modernità del cinema muto
Alphaville 12.10.2023, 11:30