Cinema

Flaminia: l’esordio alla regia di Michela Giraud

Crescere e prendersi la responsabilità di chi si era per diventare pienamente chi si è. Risate e lacrime con l’ottimo film della comica romana

  • 29 aprile, 07:32
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"Flaminia" con Michela Giraud

  • Courtesy of Vision Distribution
Di: Valentina Mira

Il “want” e il “need”. Nelle scuole di sceneggiatura ti viene insegnata questa regola della scrittura, che è poi una delle regole della vita, ammesso che ne abbia. Che entrambe ne abbiano. Il “want” è quello che la protagonista vuole. Il “need” è quello di cui la protagonista - la parte più nascosta di lei - ha bisogno. “You don’t always get what you want, but sometimes you get what you need”, cantavano i Rolling Stones: “Non ottieni sempre quello che vuoi, ma a volte ottieni ciò di cui hai bisogno”. È quello che succede nelle storie scritte bene. E nelle vite. Anche in quelle scritte male. Alla prima categoria appartiene Flaminia, scritto, diretto e recitato da Michela Giraud, classe 1987. Il “want” è il matrimonio borghese. Il “need” è la sorellanza. Incarnata proprio da una sorella. Una sorella involontariamente punk, con una disabilità che ricalca quella della vera sorella dell’autrice.

Flaminia, dal canto suo, è un personaggio terribile: di Roma Nord, ricca, superficiale e soprattutto della Lazio.

Avanza in quel di Parioli à la Sex and the city (prendendolo e prendendosi in giro) vestita di rosa in un incipit che ricalca Barbie, con un inizio forte da passeggini che saltano in aria e istinto materno sbertucciato. Continua presentandoci le sue amiche, «o, come le chiamo io, i premi Pulitzer», amiche che sono una citazione esplicita a Mean girls, film, anche in questo caso, citato per decostruirlo. La sua inizia come una critica da Roma Nord a Roma Nord, comprese le ipocrisie dei ricchi di sinistra. Quelli che usano il volontariato in Africa come una card per sentirsi migliori degli altri. O le baby star, influencer su Tiktok probabilmente figlie di attrici, sempre in tempo per redimere il privilegio e farsi un viaggetto anche loro in un posto per il quale provano solo del paternalismo: vi salvo io. Intanto, però, fammi recitare nel film di mamma. O cantare una canzone in qualche club riservato ai soci.

Flaminia no. Non è meglio, non è peggio: Flaminia fa schifo e basta. In maniera ignorante e impenitente.

Per fortuna compare la sorella. Ludovica fin dal primo momento è il ritorno del rimosso: amante dei carboidrati in una classe sociale in cui pare che le donne vi siano allergiche; incapace di disonestà, sempre fuoriluogo (o sono i luoghi che non vanno bene?). Lei è quello che definiva con precisione Il mostruoso femminile di Sady Doyle, tutto ciò che nella nostra società è relegato a mostro (monstrum, figura spaventosa ma anche prodigio). Donna, con disabilità, grassa, capace di tirare fuori la voce in toto: dal canto alla rabbia. Tutto ciò che chi sta in alto, ma non solo, non ha alcuna intenzione di vedere e sentire. Tutto ciò che è intrinsecamente rivoluzionario. L’esatto contrario di Flaminia, che esclama: «Piuttosto che accompagnare Ludovica da qualche parte io mi faccio esplodere a una manifestazione femminista!». Non va d’accordo col concetto di sorellanza, non va d’accordo neanche con l’idea di essere sorella di Ludovica. Peccato che ne abbia bisogno. E nel modo più intimo in cui si può avere bisogno di qualcosa o di qualcuno.

È subito chiaro che con la comparsa di Ludovica riappare anche il rimosso della protagonista stessa, di cui l’altra è testimone e depositaria. Quello che ha mascherato e spinto via da sé negli anni, per allinearsi all’ambiente d’origine, rigido, conformista, con ben poco spazio alla dissidenza. Pietro Castellitto in un’intervista disse (o il giornalista riportò) che “Roma Nord è come il Vietnam”. Chiara Valerio sostiene che non solo i tristi hanno il diritto di lamentarsi, ma anche quelli che sono felici. Anche i ricchi piangono, insomma. Michela Giraud fa qualcosa di molto diverso: sventra il privilegio dall’interno. Te ne racconta le ipocrisie. Non le giudica, le incarna e poi se ne libera. Tutto grazie al contrasto tra la sorella con disabilità, il suo prendere un microfono e cantare ad alta voce davanti a tutti, e il pezzo di umanità che si rivede, feroce, nel tizio con la bandiera dell’Italia nel profilo che commenta su TikTok: “certe persone non dovrebbero entrare nei circoli”. Il sottinteso è che i ricchi non sono buoni mai. E tradiscono gli stessi ricchi, non appena si discostano dalle loro regole. C’è perfino chi, come Ludovica, rischia attacchi solo esistendo. Ed ecco che il film di Michela Giraud diventa un invito a resistere, cioè a esistere di nuovo e con più forza. Una riscoperta dell’essere sorelle. Un patto antiabilista e femminista. Un patto di liberazione.

Allo stesso modo, Flaminia riscopre la rabbia, altro frutto magico del ritorno della sorella. Si vede con chiarezza lo scontro tra due sistemi valoriali contrapposti: una delle sue amiche, che ricordano le Woo Girls di How I met your mother, precisamente quella con la catenina con scritto “amore” al collo, pensando di non essere ascoltata fa dei commenti pieni di odio contro Ludovica prendendone di mira la disabilità, e anche contro Flaminia; siamo al limite del nazismo, visto il modo in cui si parla di genetica. Flaminia esce dal bagno. È il primo momento in cui ribalta la narrazione cui film e libri ci hanno abituate (quella della ragazza che scappa via, piange) e si consente di agire una rabbia liberatoria. Lo farà anche, e in maniera più esplicita, con la persona che dovrebbe prendersi cura della sorella, e invece… non faremo spoiler, diremo solo che siamo contenti di non essere più ai tempi di “Donne, povere matte” di Lieta Harrison.

La liberazione è anche nel cibo, con echi di “Le divoratrici” di Lara Williams. La liberazione è in quel passaggio fondamentale del film in cui Flaminia diventa intollerante all’intolleranza. Precisamente davanti al truccatore. Una scena da guardare in loop, per riscoprire quant’è bello il franare di una maschera.

Alzati e… ridi!

Charlot 18.12.2022, 14:35

  • iStock

Un’ultima nota di merito per questo splendido esordio alla regia, buffo, intelligente, anticonformista e a tratti da lacrime, è la delicatezza con cui sfiora non tanto il carcere ma chi ne esce. E chi ha tradito, è stato vigliacco e ha abbandonato chi c’è entrato. Il perdono, solo dopo la presa di responsabilità. Amori che davvero sono infiniti. Che tu, vecchio per me non diventerai mai: «È impossibile». Per scoprire se il perdono avviene oppure si resta bloccati in un passato irredimibile - non per chi è stato dentro e ha pagato anche troppo, ma per chi da fuori si sentiva così pulito da fregarsene - il consiglio è di vedere il film. Aiuta in caso di rigidità mentale. Un’epidemia quasi peggiore del covid, negli ultimi tempi.

Se cinema e teatro raccontano la casa

Charlot 28.04.2024, 14:35

  • Courtesy: Monica Bonetti piccoloteatro.org

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