Ci sono forse due ordini di motivi per cui un film viene dimenticato. Il primo è il più banale e frequente: non è un bel film. Il secondo è più raro: il film è pericoloso. Precorre i tempi. Rinfocola rivolte, interpreta le viscere del paese. E magari prova a farlo proprio partendo dai più giovani. È il caso di Foxfire.
Foxfire è del 1996, della regista americana Annette Haywood-Carter, e in teoria alle forze più reazionarie e sessiste nordamericane sarebbe dovuto piacere; banalmente, perché c’è un primo piano del seno nudo di Angelina Jolie. Non una cosa che succeda tutti i giorni. Eppure.
Eppure Foxfire è il film del #MeToo, prima del #MeToo e molto meglio del #MeToo. È la testimonianza cinematografica che qualcosa bolle da tempo, che un fuoco c’è sempre stato, che non è vero che certe consapevolezze sono nuove: solo che prima non riuscivi a farle passare. Ci siamo organizzate meglio. Si chiama sopravvivenza.
Di cosa si tratta, cos’è
Foxfire: il film con un’Angelina Jolie in stato di grazia, 21enne (due anni prima di
Gia, ancora prima di
Tomb Raider) è tratto da un romanzo ("Ragazze cattive") di una grande autrice (libro a sua volta dimenticato e particolarmente difficile da trovare), nientemeno che Joyce Carol Oates. Vuole essere un film sul liceo, ma smonta tutta la retorica sul liceo. Se le Millennial sono cresciute con la femminilità tossica, benché autoironica, di
Mean girls, qui c’è una buona notizia: nello stesso periodo esisteva
Foxfire e non lo sapevamo. Per fortuna non è mai troppo tardi per recuperare. La trama ha uno degli inneschi più classici. Una giovane donna coi capelli corti (Angelina Jolie) arriva in città. Si chiama Legs, e il suo è un
nomen omen, infatti come le gambe anche lei è movimento. Muove sé stessa nel mondo con coraggio e soprattutto muove le cose per le altre ragazze. La scuola in cui entra è la classica
high school nordamericana. Che, in quanto tale, nasconde non poche magagne. Rita, capelli rossi, non se la sente di dissezionare la rana a lezione di Scienze. La pressione del professore e di parte della classe è evidente. Questa scena è un gioiello: raffigura senza tabù quello che gli Stati Uniti ci forniscono acriticamente a più riprese, qualcosa di normalizzato, di cui nutrono l’immaginario, ragazzi che dissezionano rane. Quando si dice “senza tabù” si intende esattamente questo: le rane stavolta le vediamo da vicino, vediamo come sono legate a zampette spalancate, ne scrutiamo la vulnerabilità. È una scena che mette profondamente in discussione la società americana e anche la nostra, le ipocrisie, la legge del più forte rivendicata anche nei dettagli contro una morale diversa, nuova. Legs entra nelle vite delle ragazze come un Tyler Durden femminista. Ma la sua non è una violenza alla Tyler Durden. E, vedendo la delicatezza con cui Legs-Angelina ferma la mano della compagna che sta per ammazzare la rana (piagnucolando, perché non vuole) mentre il professore la obbliga a farlo, a conformarsi, il paragone non sembrerà calzante. Ma è una trappola: era già successo in
Tre manifesti a Ebbing, Missouri, altro capolavoro femminista, che una donna in grado di difendersi anche con violenza e di certo con rabbia, s’intenerisse verso qualcuno di più debole e, anziché infierire, lo aiutasse; in quel caso era un dettaglio, un piccolo scarabeo finito a zampette all’aria, il contrasto con la morale comune che vuole gli insetti disgustosi e forme di vita inferiori e la dolcezza di quel dito che lo rimette dal verso giusto perché possa continuare la sua via, un dettaglio sì, ma grandioso. Qui con le rane abbiamo una critica neanche troppo implicita (e da quale penna, se non quella di Joyce Carol Oates?) agli Stati Uniti, fin dal sistema scolastico. Legs in effetti non è una pacifista. Solo, non infierirebbe mai sui più deboli. Come - ci dice l’autrice neanche troppo tra le righe - ti insegnano invece a fare, qui in America.
Quando Rita viene molestata dal professore c’è una risposta femminista e, stavolta, violenta. Mai quanto lui e la sua serialità negli abusi, però. 1996, il #MeToo è lontano da venire, eppure la reazione proposta da una delle più grandi scrittrici viventi e interpretata da un gruppetto di liceali povere (il film è ambientato negli anni Cinquanta, in un quartiere operaio) è talmente accurata da commuovere. Sorellanza, fare squadra contro i sedicenti branchi, camminare libere per le strade non permettendo a nessuno di vittimizzarti prima, di colpevolizzarti poi, per quello che ha fatto lui.
Sono tante le cose notevoli in Foxfire, cercheremo di riassumerle qui senza spoilerare troppo. La scena del seno scoperto è intima e intrisa di female gaze (forse per questo il film non ha comunque sfondato la barriera del mainstream). L’atmosfera è stregonesca, ci sono candele ovunque, le ragazze si tatuano a vicenda. Inizia la nostra firestarter, Legs. Quando le chiedono perché si stia tatuando proprio una fiammella, del fuoco stilizzato, lei risponde: «Perché alimenta, ma se non lo rispetti distrugge. Come noi stanotte».
C’è speranza, c’è forza, c’è un simbolismo intrinsecamente rivoluzionario che, con gli occhi di oggi, può curare. La canzone in sottofondo è Into Dust di Mazzystar, la stessa che sarebbe stata usata, anni dopo, nella famosa scena della morte di Marissa in The OC. Ovvero quando fu creata inutilmente una martire in una serie tv. Marissa era la vittima per antonomasia, nessuno empatizzava mai davvero con lei e il suo dolore e le sue relazioni sbagliate con gli uomini la portano a morire. Insomma: quello che in The OC sarà maschilista, fu nel 1996 colonna sonora di una scena profondamente femminista. Che non ci è mai arrivata.
Le ragazze di Foxfire sono quanto di più lontano dalla perfezione, dall’essere, o proporsi come, eroine. Anzi, con l’eroina una ha a che fare in altri sensi. Uno degli argomenti tabù che il film tocca, infatti, con grande delicatezza ma senza sconti, è l’eroina.
C’è inoltre un tentato stupro, e il modo in cui il discorso è trattato è meraviglioso: «Che succede?», chiede una di loro. «Maddy è stata quasi stuprata e noi abbiamo rubato questa macchina!». Ma come, senza lacrime? Se le tue sorelle sono all’altezza, sì, senza lacrime.
Enorme e evidente anche la cesura tra queste giovani donne non ricche e il tribunale. (Perché, in effetti, hanno rubato una macchina). «There’s no justice, fuck your court!», viene detto.
Il film, come e più del libro - è uno di quei casi in cui vale la pena guardare prima il film - non teme di infrangere nessun tabù. Legs va anche in carcere, e quando esce, al grido di “father means nothing”, punta una pistola addosso al padre di Goldie, la sua amica con problemi di eroina. E le regole della narrazione ci dicono che se c’è una pistola in una storia, puoi star certa che sparerà. In effetti. (Potrebbe essere un finto spoiler).
Questo sogno di amicizia e ribellione da ragazze di periferia finisce con un arrivederci. E con una canzone che stringe il cuore, ma forse è solo perché anche a noi sarebbe servita una Legs nella nostra vita, a tempo debito, e vederla andare via vuol dire dover accogliere la possibilità di essere un po’ più come lei da sole, per noi e le nostre amiche, esattamente come succede alla protagonista. Kristin Hersh canta: you can come back / when you want. Ha il sapore di una promessa.
Vale anche per Foxfire. L’arte non ha data di scadenza, e se il mondo non era pronto a uno sguardo così lucidamente femminista negli anni Novanta, ora sembra proprio che lo sia.
Joyce Carol Oates, Il collezionista di bambole
RSI New Articles 07.12.2018, 07:50
Contenuto audio