Cinema

Gli spiriti dell’isola

Tragedia surreale e parabola metaforica

  • 8 febbraio, 09:50
  • 26 febbraio, 09:25
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Brendan Gleeson in "Gli spiriti dell'isola"

Di: Davide Staffiero

Prima di approdare al grande schermo, Martin McDonagh si era già fatto una reputazione di tutto rispetto grazie a una pluripremiata carriera da drammaturgo. Un’impostazione, quella teatrale, che in un modo o nell’altro ha sempre influenzato il suo Cinema, a partire proprio dalla cura certosina per i dialoghi – esuberanti, caustici, grotteschi – tratto distintivo della sua produzione filmica fin dal folgorante “In Bruges”, poi portato all’estremo nello scatenato “7 psicopatici” e ricondotto a una forma più autentica in quel “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” che a oggi – secondo chi scrive – rimane il suo film più maturo e completo.

Con una miscela tutta personale di humour nero e indole malinconica, esistenzialismo pulp e boutade paradossale, McDonagh ha conquistato pubblico e critica fin dai primissimi passi nel mondo della Settima Arte. Irlandese di origine ma cresciuto con una cultura britannica a tutto tondo, l’autore torna dichiaratamente alle proprie radici – dalle quali non si è mai davvero allontanato – con “Gli spiriti dell’isola”, allegoria nera che riunisce la coppia Farrell/Gleeson quattordici anni dopo “In Bruges”. Su un’isola al largo della costa irlandese, si consuma così una cupa parabola destinata a farsi specchio e carico del conflitto intestino di tutto un Paese. Staccata dalla terraferma per definizione, l’immaginaria Inisherin presenta un microcosmo indipendente, sul quale gravano però gli stessi fantasmi (banshees) che perseguitano il resto della nazione; palco ideale, dunque, dove allestire un’acuta dissezione psicologica che dal personale rimanda al collettivo. Un approccio multistrato che è tra i maggiori pregi della pellicola e al contempo rischia di costituire anche il suo unico difetto, perché volendo muovere un appunto a un’opera impeccabile sotto quasi ogni punto di vista, si potrebbe rilevare in filigrana un certo didascalismo, che al contrario del precedente “Tre manifesti” consente, talvolta, al personaggio-metafora di prevalere sul personaggio-essere umano, in uno gioco di rimandi scoperto che tuttavia non pregiudica l’intensità della visione né nulla toglie alla superba performance degli interpreti.

Abile cantore dell’insondabilità dei rapporti interpersonali, McDonagh si muove come un equilibrista tra tragedia surreale e sottotesto sociopolitico, innescando un cortocircuito tra l’apparente semplicità – o meglio, teatralità – della forma (pochi attori, poche location) e la scala del portato simbolico, che evoca un’Irlanda in perenne conflitto con sé stessa. “Occhio per occhio e il mondo diventa cieco”, diceva Gandhi. McDonagh, da bravo surrealista, azzarda una parafrasi che sostituisce l’occhio con un’altra parte del corpo, ma la sostanza del motto rimane la stessa.

Dall'Irlanda al Multiverso, sono tutti matti

Il divano di spade 04.02.2023, 19:00

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Satellite Awards 2023 – Miglior sceneggiatura

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